mitomania

mercoledì, dicembre 30, 2009


professione filosofo

sabato, dicembre 26, 2009

" Come professione, Antonino Paraggi esplicava mansioni esecutive nei servizi distribuitivi di un'impresa produttiva, ma la sua vera passione era quella di commentare con gli amici gli avvenimenti piccoli e grandi sdipanando il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari; egli era insomma, per atteggiamento mentale, un filosofo, e nel riuscire a spiegarsi anche i fatti più lontani dalla sua esperienza metteva tutto il suo puntiglio "

[un post così sembrerebbe strano: eppure...]

pranzo di natale, edizione 2009

lunedì, dicembre 14, 2009

vi stavate preoccupando, lo so. ma ingiustificatamente: ché mica ci perderemmo per nulla al mondo il nostro classico appuntamento natalizio! quest'anno, tra l'altro, in versione più internazionale che mai: parteciparanno reduci da parigi, milano, boston, collesalvetti e perfino signore e signori dalla sardegna! il vero evento, altro che quello di cui nel post precedente...

l'appuntamento è nella classica sede distaccata di via rigattieri sita in via Corridoni 42 49,

SABATO 19 DICEMBRE 2009 A PARTIRE DALLE ORE 12 13


l'organizzazione è la solita: ognuno, al suo buon cuore, porta qualcosa, ed io per tutti (no non era così. ognuno porta qualcosa e basta).

naturalmente, come per ogni pranzo di natale, anche quest'anno ci sarà un'innovazione. non più la tombola come l'anno scorso, ma qualcosa di nuovo, rivoluzionario, inimmaginabile! 


e chi vince, vince il gatto. 




p.s.: e come sempre, i commenti serviranno sia ad aderire che ad evitare doppioni nel menu

p.s.2: (modifica del post a distanza di tempo - non autorizzata) se qualcuno vuole portare premi per il gioco, da mettere in palio, ben venga! se qualcuno vuole portare pane e vino (e marcellino), lo dica!

l'evento

giovedì, dicembre 10, 2009

già dall'inizio si annunciava come una delle tipiche trovate alla cofe. ma come smorzare il suo entusiasmo, la sua palpabile eccitazione? ho aderito senza esitazione alcuna. "ci dobbiamo prenotare!", mi dice quasi sussultando. va bene, prenotiamoci. "me l'ha detto quella, la deleuziana carina". benissimo cofe, andiamo, mi fido completamente: fammi solo sapere dove devo arrivare, a che ora, pensa a tutto tu. d'accordo, d'accordo. un'avvisaglia l'avevamo avuta, a dirla tutta, la sera prima: mail di avviso della prenotazione avvenuta all'evento (organizzato da chi? in cosa consiste? tutto ignoto), dice che dobbiamo portarci computer e casco. cofe, io il casco ce l'ho a palermo. non ti preoccupare còin ci penso io, scrivo una mail per chiedere che cazzo vuol dire. còin, apposto, vuol dire cuffie: ci dobbiamo portare computer e cuffie. va bene cofe, ci porteremo computer e cuffie. ma queste cose, se non le facciamo a parigi, ma dove le facciamo? vero cofe, vero, sono contento. apposto, apposto, ciao ciao.

l'indomani. skype. cofe: come ci organizziamo? cofe, dimmi tu, dimmi a che ora mi devo fare trovare e dove. ok, la cosa inizia alle 3, è un po' fuori parigi. come fuori parigi? no non fuori parigi, non ti preoccupare, appena sopra il boulevard peripherique, ci arriva la metro. ok, ok. ci troviamo alle 14.30 a Garibaldì. bene. mangio in fretta con F., che mi è venuto a trovare, pezzo di carne e patatine al ristorante di piggì a belleville, poi parto. bella la linea 2 di giorno, tutta sopra, si vede un sacco parigi, passa vicino al canale dell'ourq, barbés, poi a un certo punto si inabissa, passa anche da pigalle. cambio, arrivo a garibaldì. aspetto un po', arriva cofe. ci incamminiamo nella periferia parigina - ma st. ouen è quartiere simpatico.

arriviamo nel posto dell'evento. una sorta di centro sociale, enorme, c'è un ristorante, chiediamo informazioni. "siamo venuti per l'atelier sulla voce di Deleuze". L'atelier sulla voce di Deleuze? Cofe dove siamo finiti, qua non c'è niente. ma no, fidati, ora troviamo. scusa ma la tua amica? eh ma lei non viene. come non viene, cofe, prima ti invita e poi non viene? eh si se veniva mica ti portavo. ah ok. eh.

arriva V., ci dà delle informazioni, ci fa vedere una mega installazione al semibuio su Deleuze, con dei video. su una parete grande è proiettato il video di due tizi in un bosco. "è il bosco di vincennes", ci dicono, con grande deferenza. ah. quello del primo maggio, ci ho giocato a calcio, ho capito. ci presentano S. parliamo un po' in francese, lei parla super sottovoce e in maniera suadente, forse, secondo lei. convenevoli, poi vedo su un tavolo l'immagine-tempo in italiano, le chiedo come mai? e lei mi dice che è italiana. ah, noi pure siamo italiani! ah oui? mais en fait nous on ... e continua a parlare in francese, come se niente fosse. bah.

insomma ci spiega un po': lei ha fatto un film, che ha proiettato anche a procida, riutilizzando i video che M. B. ha fatto dei corsi di Deleuze a Vincennes, e oggi l'atelier è proprio con M. B.: avremo occasione di parlare con lei, discutere ecc. cazzo cofe, questi ci fanno parlare. ma no dai, ora vediamo che succede. 7 prenotazioni, pare. io vedo che ci siamo io, cofe, S., arriva M. B., V. e altri 2 (ma gli organizzatori sarebbero esclusi dalla prenotazione, vabbè). mentre aspettiamo ancora, S. ci racconta ancora delle cose, sull'idea del progetto, su D&G, su di noi. ma noi chi, cofe? noi, noi. avrete presente sicuramente il danzatore buto masuka magrolino, ci dice, ecco lui è andato in questo ex manicomio in cui lavorava Guattari, è un posto stupendo, in cui i medici sono un po' malati e i malati sono un po' medici. lui è rimasto lì un po' di tempo, io ci sono andata col mio compagno e non volevo più andare via, ce ne sono rimasti pochi di posti così, ce li stanno togliendo tutti. cofe, che ci stanno togliendo? i posti così. dai ma ci dobbiamo andare pure noi. ehò. e anche l'atelier di oggi è una specie di cosa di contestazione verso l'università per come la stanno facendo diventare, ci dice. ma chi? ma loro! e noi chi siamo, cofe? noi, noi, ma stai tranquillo. il tavolo per esempio è tutto stondeggiato e coi buchi, ma fatti apposta, forse perché il rettangolo è una forma e noi non siamo formali, vogliamo rimanere nel manicomio. mah, io tutti i torti...

insomma, presentazione del posto: artisti ecc, autoprodotto belle storie. progetti culturali, tipo questo. bello. parla M.B.: sono anni che sto curando un progetto sulla voce di Deleuze, trascrizione dei testi e messa in linea dei corsi. bello, meritorio, il sito lo conosco anche. ecco, sono anni, il lavoro è molto duro, molto importante (aria compresa). si. cofe. si coin. ma. si. a che ci serve il computer? boh, è in linea. connetetevi al sito, dice M.B. . tié, il mio non si connette. prendete un file. cofe. aprite un file word. cofe. ascoltate l'audio e correggete le trascrizioni che hanno fatto altri volontari prima di voi. cofe ma che cazzo dice questa? ... cofe ma scusa cosa siamo venuti a fare? l'atelier è praticamente che noi stiamo qua a correggere e trascrivere i corsi di deleuze? cofe scusa siamo venuti a st. ouen in un garage freddo con un gruppo metallaro che prova di là portandoci computer e casco per perdere un pomeriggio appresso a questi quattro fricchettoni per correggere il lavoro che dovrebbe fare questa qua, o qualcuno che è pagato per farlo? ... cofe ma ti sei accorto che questi quattro fricchettoni HANNO TUTTI IL MAC? COFE MA TI RENDI CONTO CHE ABBIAMO TUTTI IL MAC? COFE MA COSA CI STA SUCCEDENDO, COFE, RISPONDIMI, COFE! ...

alle 18 siamo andati via, dopo aver letto e corretto una lezione di Deleuze sul cinema, al freddo, al buio, aggratis. ma se queste cose non le facciamo a parigi, dove?

Do you speak Dylanese?

giovedì, dicembre 03, 2009

a vent'anni dalla morte, un inedito di Sciascia

venerdì, novembre 20, 2009


a modest proposal

venerdì, novembre 13, 2009


Mi scuserete il post un po' moralista, ma di tanto in tanto non è detto che faccia male.
M’è venuto in mente parlando col povero crobino (che mi chiedeva indietro mille euri di cui non vi sto a raccontare la storia) che è una vergogna che noi altri si discorra tanto e poi non si faccia mai nulla per fare qualcosa di concreto, non ci impegniamo mai in prima persona per creare nei fatti il mondo migliore di cui tutti ci riempiamo la bocca. Per questo avevo chiesto a Betty di lasciar perdere le sue sporche mille bucce e di buttarle con me in un progetto ambizioso, volto a creare un  po’ di gioia in questo triste mondo. C’è altro che conti, oltre a cercare di creare della gioia in questo triste mondo? No, non c’è altro, garantisco.
Dunque il progetto era questo: fare una colletta per mandare me a passare natale e capodanno a Cuba. Ora che allargo la richiesta a tutti voi non servono mille euro a persona, basta anche meno, diciamo dueccinquanta a capoccia, se partecipate (partecipiamo, che anch’io metto la mia quota) tutti (un cinquemila carte, secondo i miei calcoli, poi più partecipate e più gioia ci sarà, naturalmente). In questo modo io potrei andare a sputtanare in senso letterale i vostri quattrini, facendo brindare alla vostra salute le più belle gnocche cubane con coppe ricolme del mio seme. Non siate piccoloborghesi, col ditino indice alzato e la falsa morale: nessuno di voi, sono certo, resterà attaccato allo sterco del demonio rinunciando alla possibilità, non sempre facile da incontrare, di creare felicità su questa terra.
Certo, vecchi sofisti, mi obietterete: tanto varrebbe dare i soldi agli africani che muoiono di fame (sempre la retorica degli africani che muoiono di fame, grigio e noioso ritornello di quelli che non si impegnano o delle mamme che vogliono far finire i broccoli ai figli: “Mica lascerai i broccoli? Ma lo sai che ci sono i bimbi africani che muoiono di fame?” “E che pensi, genio di una mamma, che se finisco i maledetti broccoli (ormai diacci) i bimbi africani poi stanno meglio, si sentono più sazi?”). Ma, vi rispondo domandando di rimando (e allitterando):  cosa se ne fanno in Africa dei vostri cinquemila cheeseburger, quando non hanno acqua che non sia marrone? Cioè, quelli magari li mangiano volentieri, i cheeseburger, ma poi non è che se la passano tanto meglio, restano sempre mediamente molto infelici. Capite, l'unico modo per rendere questo mondo migliore, per fare la vostra parte di uomini sensibili e interessati e di sinistra, è quello di donare un piccolo obolo a Ferari, in modo che li unisca e li trasformi in gioia pura, con infinite ripercussioni, sempre cariche di gioia (la gioia dell'ultimo baluardo comunista, la gioia di tanti tegami e tanti barmen cubani, la gioia di airfrance, gioia, gioia che prolifera e si moltiplica, inno alla gioia). Cinquemila euri a cinquemila persone sono un sacco di gioiette inutili, ma cinquemila euri a me sono una gioia immensa, incalcolabile (lo dice anche Marx: la quantità si trasforma in qualità). Naturalmente anch’io contraggo impegno formale con tutti voi a divertirmi un sacco, che il vostro sacrificio non vada sprecato.
Mi obietterete ancora, meschini: perché non ce li teniamo, i nostri soldi, e pensiamo ognuno a creare la propria gioia e a farla proliferare (anche se non mi sembrate dei tipi tanto egoisti da voler usare i vostri soldi per la vostra gioia)? La risposta è semplice: perché i vostri duecentocinquanta euracci non basteranno a fare la vita da nababbo (= più gioia) che invece farei io (in vostro onore). È il vecchio principio socialista, per cui l’unione fa la forza: voi con i vostri duecentocinquanta euri siete i soliti (= meno gioia), mentre io con tutti i vostri soldi ci vado a Cuba.
Vi pregherei per altro di fare in fretta, che sennò i prezzi degli aerei salgono (poi sotto le feste) e dopo vi tocca pagare di più per avere la stessa quantità di gioia.

dal vostro inviato a firenze

domenica, novembre 08, 2009

Finisce la 50esima edizione del Festival dei Popoli di Firenze, il secondo festival che seguo nella mia vita, grande soddisfazione. Quando ho deciso - non ho deciso niente, è successo - di occuparmi di cinema, la spinta era principalmente quella dell'unire l'utile al dilettevole: troppo difficile la filosofia, non avrei saputo contribuire significativamente né studiarla 12 ore al giorno come si dovrebbe. A me piaceva andare al cinema. Ma ho sempre vissuto il cinema come otium vero e proprio: quando la professoressa di latino mi diceva che non potevo arrivare impreparato a scuola perché ero andato al cinema il giorno prima, non ero mai d'accordo. Ero andato al cinema, appunto, mica a giocare con gli aquiloni. (Per quanto anche giocare con gli aquiloni possa avere le sue implicazioni importanti). Insomma, per me il cinema è, oltre a un grande divertimento, una cosa molto seria. Per fortuna non sono l'unico: tante altre persone la pensano così, le stesse che danno una giustificazione "sociale" al mio studio. E quindi mi sono trovato a fare del cinema una cosa anche più seria di quanto non volessi: oggetto di studio, per l'appunto. Mi ritrovo quindi periodicamente a scrivere di cinema, ma mica per un motivo troppo serio: scrivo di cinema per poter andare al cinema. Cioè per avere una giustificazione (economica e) sociale per andare al cinema. Quindi, nello specifico, per essere pagato e poter andare al cinema; o per esempio per poter andare ai festival di cinema gratis, e vedere un sacco di film. Per fare questo talvolta devo poi veramente scrivere (per ottenere l'accredito al Torino Film Festival, ad esempio); talaltra sono più fortunato, come per questo festival fiorentino, dove l'accredito me l'hanno dato senza nulla in cambio. Che bello. Un gran regalo (come Torino, che era il regalo di laurea che  mi sono fatto da solo). Ma insomma io non è che scrivo di cinema perchè ho cose intelligenti da dire, né perché ne capisca un granché: a me il cinema piace vederlo. Questo sì: sono un grande spettatore. Però - e non capisco perché - la società non ha ancora dato un ruolo allo spettatore disinteressato, quello che vorrebbe andare a vedere i film e poi tornare a casa, magari a vederne un altro. Lo spettatore che non contribuisce in nulla al progresso della società. Quello che, al limite, neanche ci ragiona troppo. That's entertainment!, o no?

Insomma, in attesa che venga riconosciuta una certa dignità anche a questa serie di persone di cui mi vanto di far parte, mi adeguo alle regole della stampa/studio/critica cinematografica. E allora, anche se non devo, per senso di colpa do un miniresoconto di questo festival, veramente strepitoso, con l'augurio che qualcuno di questi film possa circolare al di là dei circuiti specialistici.

Vince Defamation, dell'israeliano Yoav Shamir: un film molto potente, che prende spunto da una semplice domanda: che cos'è l'antisemitismo? La tesi del film - perché di film a tesi si tratta, per quanto coraggioso e più problematico di molti altri - è che oggi l'antisemitismo è innescato da, e funzionale a, l'establishment israeliano, lo stato di Israele e le lobby ebraiche, soprattutto negli USA. Vedere dal di dentro il funzionamento della statunitense Anti-Defamation League, potentissima organizzazione che si occupa di denunciare per l'appunto tutti i presunti casi di antisemitismo che succedono nel mondo, è agghiacciante. Ed è agghiacciante anche l'etichetta di negazionismo che viene affibbiata a chiunque osi contestare queste lobby e il loro legame con lo stato di Israele. La shoah usata come scudo, il senso di colpa come arma per difendere qualunque tipo di operazione militare e criminale dello stato di Israele vengono così denunciate con molta forza. Chi segue la storia del conflitto arabo-israeliano troverà confermate convinzioni che già gli appartengono, o si indignerà per l'utilizzo irriverente della macchina da presa che questo regista ebreo non allineato rivolge contro gli interessi del suo paese. Chi si interessa più nello specifico alla questione cinematografica, ritroverà echi alla Michael Moore che, al di là di ogni contenuto, di per sé possono risultare urtanti.

Petropolis di Peter Mettler è una splendida videoinchiesta sugli sfruttamenti delle sabbie bituminose nella zona intorno alla città di Alberta, in Canada; il film, quasi privo di commento, si compone di una serie di inquadrature aeree su queste vaste zone da cui sono stati estirpati gli alberi e dalle quali, tramite il pompaggio di acqua calda, viene separato il bitume dalla sabbia. L'effetto è visivamente straordinario: basti pensare che per 40 minuti il solo raccordo di queste immagini crea una storia appassionante, allarmata e coinvolgente. Siamo solo all'inizio dello sfruttamento delle sabbie bituminose in Canada; Greenpeace ha lanciato una campagna a livello mondiale perché il rischio è quello di trasformare in maniera irreversibile il suolo canadese e alterare così l'ecosistema mondiale.

To shoot an elephant di Alberto Arce è il secondo film che parla del bombardamento israeliano a Gaza tra il dicembre 2008 e il gennaio del 2009, l'operazione Piombo fuso che è già stata trattata dall'omonimo film di Stefano Savona (col quale questo film entra in qualche modo in polemica: polemiche che, sia detto una volta per tutte, non ci interessano minimamente). Il regista spagnolo ha seguito con la sua telecamera tutto il periodo del bombardamento israeliano che ha devastato case, ospedali, centri di rifornimento di cibo e medicine della striscia di Gaza. Piovono missili, bombe, proiettili, letteralmente, attorno alla telecamera di Arce: e il film è una denuncia fortissima di un'insopportabile occupazione che è tollerata dai paesi occidentali e di cui scontano le sorti principalmente gli inermi abitanti della striscia di Gaza. Il film è copyleft e può essere visto, scaricato, diffuso e anzi questo è l'intento principale del regista, affinché nessuno possa dire di non averne saputo niente.

Sahman di Harutyun Khachatryan è il film che più di tutti mette in questione il rapporto tra fiction e documentario; la macchina da presa segue la storia di una bufala, al confine tra Armenia e Azerbaijan, per mettere in discussione ogni legittimità, ogni valore (politico, storico, geografico) che si suole dare ai confini tra i paesi, ai rapporti tra popoli separati da piccole strisce di terra. Il film è senza dialoghi per 82 minuti: ed è impossibile dire a parole quello che Khachatryan fa con le immagini. Tutto è vero, ma non ha nessuna importanza: le immagini che documentano le fughe di questa bufala creano una storia bellissima, struggente e l'assenza di dialoghi non pesa affatto sull'equilibrio del film. Ahimé temo che non avrà una grossa diffusione, per cui se vi capita, correte.

Drottningen och Jag (The Queen and I) è il film che Nahid Persson Sarvestani, regista iraniana che ormai da anni vive in Svezia, ha realizzato sulla regina Farah, moglie dello Shah di Persia cacciato via dalla rivoluzione che mise al potere Khomeini. La regista stessa, comunista, prese parte alla rivoluzione, e dovette scappare dopo che il regime di Khomeini si rivelò amaramente come peggiore addirittura di quello dello Shah. Il fascino che l'imperatrice esercitava sulla regista adolescente rimane intatto, nel corso di questo rapporto tra due donne, esiliate, di opposte fazioni, che a trent'anni di distanza si scoprono più vicine di quanto non pensassero nell'amore per il loro paese. Film delicatissimo, che indaga al di là del gioco delle parti nell'intimo delle persone, e mette in gioco, pur nella distanza, due grandi umanità.


Chiudo qui il miniresoconto: aggiungendo solo che all'interno della rassegna The feeling of being there che raccoglieva sette anni di cinema documentario, dal 1958 al 1965, ho avuto modo di vedere l'incantevole ...A Valparaiso di Joris Ivens, e che durante la notte di venerdì è stato proiettato in anteprima assoluta La faccia della terra, film scritto e interpretato da Vinicio Capossela, che era anche presente in sala. Il film sarebbe anche visivamente interessante, se non fosse per Capossela,  portato in trionfo sotto ogni aspetto, e davvero troppo ingombrante (come dire: fai il cantautore, non il romanziere o il cineasta).


Io comunque mi sono molto divertito, e ho avuto un'ulteriore conferma che non basta una macchina fotografica a fare un fotografo.





Teoria del post

martedì, ottobre 27, 2009

5 anni di esperienza mi confermano una teoria, che è più che altro una prassi, semplice semplice semplice - come tutte le teorie degne di questo nome:

più il post è scarso, più esso è commentato.

scolio: con 'scarso' si intende qui una varietà di cose volutamente non meglio identificate; per contemplarne solo alcune, e immaginare lo spettro delle restanti (e infinite) possibilità, si pensi a "poco accurato", "frettoloso", "di getto (ma non di genio)", "non troppo intelligente", e così via e così via.

l'opposto di scarso è la frequente e ripetuta frustrazione occasionata da quelli che riteniamo grandi post, e che spesso i commentatori disertano - o commentano scarsamente (anche nell'accezione dello scolio suddetto).

la teoria si applica ai blog di piccola e media frequentazione e grandezza (e forse ambizione) - chinaski per esempio è escluso, perché in Lui, per Lui e con Lui le cose vanno come dovrebbero andare: grande post, grande entusiasmo. e infatti spesso non consente di commentare, tanto è grande.

posticcio

domenica, ottobre 25, 2009




















Riportiamo alcuni brani di un testo inedito, dal Nachlass di Deleuze e Guattari.


“[…] e se probabilmente dovessimo indicare, nel magmatico caos dei nostri giorni, una figura che sopra le altre sia emblema del nostro pensiero, è senza esitazione che indicheremmo Michael Jackson. Se abbiamo ripetuto fino alla nausea che non c’è ragione più profonda per scrivere che la leviana vergogna di essere uomo, ecco che, in questo grande artista, tutto si fa proliferarsi di vie di fuga dall’umano, verso la pura affermazione, che intensivamente fila in ogni direzione, che non si può costringere a consistere, che crea essa stessa nuove inaudite possibilità di vita, presa in un incessante e inconsapevole divenire.
Il corpo a corpo di Michael con l’essere-uomo, comincia sin da piccolo: egli infatti nasce non già uomo, bensì – già Mozart deterritorializzato – bambino. E la sua stessa bambinitudine, lungi dal voler rappresentare il triangolare e oppressivo cliché familistico e familiare, si svolge lontano dalla macchina castratrice, dalla ghiandola che incessantemente secerne Edipo. Egli è segregato in casa (ai ricordi di mamma-papà, alla psicosi della nonnina si sostituisce il calvario creativo in cui il padre si è trasformato in un’istanza immanente, sovranamente anomala, di spinta continua verso un divenire-Jackson5; è questa spinta esterna a impedirgli di fermarsi, di aderire alle forme comuni e dominanti, di cedere alla tentazione stessa della forma, di qualsivoglia esser-formato), e allo stesso tempo è disvelato in pubblico: non c’è interiorità che non sia già superficializzata, che non si trasformi in gesto, in danza calcolata (splendore del dandy baudelaireano; infinita pozione del tricheco), in movimento secco (vaso greco, geroglifico egizio).
[…] La sua danza, fluida e spezzata come il meno inelegante dei gesti di Carmelo Bene, è la cifra del suo divenire artistico: in lui convivono l’esperienza fondamentale della marionetta di Kleist,  come del Mimo di Mallarmé (un mimo cantante, quale supremo ossimoro! quale trasversale beckettiana! Opposto che risuona nella kafkiana Josephine, cantante muta). Egli, come diceva Antonin Artaud, fa danzare l’anatomia, lascia esistere solo corpo ed evento, senza dover ricorrere alle ipoteche metafisiche di un’anima, di una coscienza, di un individuo. Egli si fa vibrazione musicale, intensità, Pierrot lunare. […] Metafisica stoica del suo moonwalker; esso è l’Evento. Vapore delle cose che sale alla loro superficie: esso schiva continuamente il presente ed è contemporaneamente un divenire-passato (il movimento è all’indietro) e un divenire-futuro (il passo non smette di essere in avanti). Aiôn.
Perfetta estasi delle sue coreografie (armonia del crostaceo esponenziale! Frattale assoluto), lo stupore del perfetto divenire-animale, il divenire-lupo nel video di “Bad” (lui, cattivo, possibile? Non sta forse adombrando la possibilità di una risemantizzazione del termine, non sta forse indicando la via di una danza al di sopra del bene e del male, pardon, al di là?), il respiro trattenuto quando si sporge in avanti e sembra che caschi e invece resta così, trasversale immonda e gioiosa, e mica cade.
[…] Ma non basta, non basta: il vero capolavoro di Michael è la sua viseità, il suo rifuggire constante dal regime semiotico significante e soggettivistico – generato dal concatenamento di potere autoritario-dispotico – del viso. Il viso è l’aggancio del potere, il viatico alla responsabilità individuale su cui poi il potere (i poteri, se diamo retta a quello coi bracci in culo) si potrà esercitare. Quanto abbiamo parlato, in Mille Piani, di disfare i tratti del viso, di romperne la semantica, l’organizzazione oppressiva di cui si fa portavoce? E lui, Michael Jackson, lo fa concretamente: ognuna delle sue tredici operazioni plastiche è un nuovo varcare un confine vibratile, un’ulteriore soglia intensiva da infrangere (il culo di un bambino non è esso stesso a sua volta una fragile soglia intensiva per cui passare?), un’immane linea di fuga verso il divenire-donna, il divenire-bambino, divenire-ermafrodito; ma anche divenire-Neverland, divenire-angelo, divenire-pedofilo, divenire-chiunque (lo splendore del si, l’intercambiabilità del tratto somatico, divenite chi siete, costruite i vostri corpi senza organi – chi più di lui si è fatto un tale corpo? –, de-organicizzatevi, fate rizoma), e altrettanto, nel suo delirio mondiale, territoriale, razziale: il divenire-bianco, il ce-lo-ricordiamo-che-eri-nero, il fare-figli-biondi. La vitiligine come decodificazione […]”.

D&G

ci vediamo tra cinque anni

venerdì, ottobre 23, 2009





Non posso dire di non averci provato. Ce l’ho proprio messa tutta, con Tristram.
Ma alla fine del quarto libro, ho dovuto smettere. Basta, mi prendo una pausa.
L’oggetto del presente sfogo è l’opera-capolavoro di Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo. Considerato il primo “anti-romanzo” della storia del genere, è stato pubblicato in nove volumi tra il 1760 e il 1767. E, tra l’altro, pare essere un capolavoro di comicità (così recita il retrocopertina, e così ritiene Orlando: ecco, lo sapevo, in effetti avrei dovuto pensarci prima...).
Ora, dico io, nove volumi.
Se fosse una narrazione divertente, mirabolante, da rompersi le ganasce, d'accordo. 
Ma oso dire che quel testo, così ricco di riferimenti alla propria epoca, oggi risulta una macchina comica inceppata. Mancano i riferimenti, l’aggancio con il retroterra culturale a cui Sterne allude di continuo.
Però, ripeto, ce l’ho messa tutta e voi, cari Rigattieri, lo potete immaginare e credere. 
La lettura faceva parte del corso di recupero (autogestito) di letterature comparate.
Ma dopo un po’, i cosiddetti si sono frantumati sul duro marmo delle epigrafi sterniane. 
E così ho stabilito un rimendio. 
Mi restano cinque libri, giusto? Ok, allora ne leggerò uno all’anno.
Tanto, persino l’autore ha diluito l’opera in otto anni di pubblicazione. 
Potrò farlo anche io, infimo lettore del terzo millennio?
Comunque, tirando le fila del discorso, tutto questo era per dire che, anche dinanzi alle somme opere della letteratura occidentale, noi giovani intellettuali precari abbiamo il diritto, il sacrosanto diritto, di mandare a farsi fottere una mazzata di settecento pagine. O almeno, di stabilire una reciproca, momentanea separazione.

altro che omelette, homeless

martedì, ottobre 20, 2009

ok, non volevo arrivare a tanto, ma mi ci avete portato voi.
non pensavo fosse così difficile. non pensavo di dover subire tante minacce. ma insomma la questione casa-per-il-capo, a parigi, si fa sempre più seria.
dopo che lionello il fricchettone m'ha dato buca, dopo che persino elòdia la oste, che pareva più disperata di me, ha preferito un altro ospite piuttosto che dare un riparo al povero capo, qua stiamo al 20 ottobre e ancora di case nemmeno l'ombra. ci sarebbero gli architetti cool: ma a parte che sono un po' troppo cool, e che sono tre amici e rischierei di essere il gemello Natali di turno (ma vabbé), la casa è da gennaio, e io devo trovare una soluzione alternativa per novembre e dicembre.
c'est pas du tout facile.
non volevo ricorrere a questo: so che ora sarò sommerso di mail di ammiratori, fans, supporters, tra le quali dovrò fare un'adeguata cernia per scegliere quale casa si addice meglio al capo. volevo evitarmelo. ma vi rendete conto che il tempo stringe, a parigi fa sempre più freddo e masuka ha proposto a me e a cofe di fare un pacs per adottarlo e fargli ottenere il passaporto europeo.
qua si rischia persino di andare a vivere col povero ciccì.
chista è 'a zita. al vostro buon cuore.

maciste, 2 anni!

domenica, ottobre 18, 2009


ecco il piccolo maciste che si prepara a prendere una lezione da suo padre

lustro il-lustro per-lustro

giovedì, ottobre 15, 2009





tanti auguri, via rigattieri!

accipicchia! cos'è questa cosa strana che spunta oggi nella mia homepage? ma... ma... viarigattieri? ma... ma... non era così! rivoglio la mia vecchia viarigattieri! così poco elegante! così poco cool! così incasinata, così caciarona, così kitch!

e no, cari navigatori-utenti-amici-amanti-amori. per chi ci avete preso? abbiamo una certa età, oramai. siamo cresciuti. ci siamo raffinati. non vedete come siamo raffinati? siamo raffinati.

siamo cool.

abbiamo 5 anni, ormai. smesso il ciuccio, abbandonato da tempo il pannolino, rivendichiamo autonomia di pensiero, capacità di giudizio, senso critico. raffinatezza, coolaggine.

siamo cool.

e siccome soprattutto non siamo moralisti, ci siamo ritoccati. un bel lifting. già, e perché no? su, forza, si apre l'arena, dateci addosso, diteci che non vi piacciamo più, che una volta c'era sì meno professionalità ma più genuinità, che ora non potete più scrivere quei messaggi istantanei a cui vi avevamo abituato, che (che ne so) quelle immagini tutte sfalsate coi link non funzionanti vi piacevano un sacco, che ora non vi ci trovate più, e così via e così via.

siamo qui per questo. sapremo reagire al fronte reazionario. anni e anni di esperienza, lotte con l'anonimo, apertura al nemico. classe e modestia, direbbe qualcuno pensando a noi se solo non sapesse che noi rifuggiamo questi elogi, che non ci piacciono, noi odiamo gli elogi.

siamo già troppo cool.

ma siccome siamo anche la vostra viarigattieri, che esiste solo grazie a voi, il nostro amato pubblico, quello che ci segue urbi et orbi, fedele da anni, anche se talvolta si smarrisce, noi abbiamo pensato anche e soprattutto a voi, siamo qui per voi. aperti ai vostri consigli, commenti, alle vostre recriminazioni sul motivo per cui tra i best of ci sono tutti i post del capo e nessuno di talaltro, per dire. beh, ci saranno pure dei vantaggi a essere capo, dico io.

certo, coi best of per esempio ci apriamo anche a un pubblico meno familiare. sia chiaro: noi dell'autoreferenzialità abbiamo sempre fatto un vanto, e continueremo a farlo. ma siccome ci sono delle perle, tra le pagine di questo blog (e altre ancora andrebbero riscoperte, ma la selezione era necessaria), non si vede perché non condividerle più rapidamente con chi viene da fuori.

perché mica tutti hanno avuto la fortuna di passare per viarigattieri, conoscerne usi costumi e malcostumi. e vorremmo forse rimproverare a quelli più sfortunati di noi di non essere abbastanza cool? suvvia, ragazzi: siamo democratici! progressisti! open-minded! (poveretti, quegli altri...)

insomma, eccoci qua. nuovi ma sempre uguali. identici ma diversi. noiosi ma con qualche tocco di simpatia. come sempre, insomma: i rigattieri.

arricriatevi.

piggino

mercoledì, ottobre 07, 2009



e giusto per non dimenticare questo giorno, la grandiosa vignetta di vauro




Comunicazione Urgente: ViaRigattieri va su Facebook

venerdì, ottobre 02, 2009


L'ufficio affari societari e legali di ViaRigattieri (con sede in Lussemburgo e, sì, se volete saperlo, aderiremo allo scudo fiscale: esticazzi) ha stabilito in data odierna e in modalità unilaterale di creare un fan club intitolato alla Società (nome: ViaRigattieri) sulla piattaforma di networking online meglio nota come Facebook (abbreviato dai più con la sigla FB).

Plurime e ormai improrogabili le necessità del nostro Gruppo di adottare una più ampia e radicale attività di comunicazione a trecentosessantasssèi gradi:
- implementare la visibilità e il posizionamento del marchio (qualunque cosa significhi);
- aggiornare l'immagine e il profilo del blog (ragazzi, con tutta la topa che gira su FB!!);
- intraprendere con maggiore aggressività una campagna di espansione commerciale (catene fasulle di sant'antonio, gadgets di facile e immediata diffusione come le insegne in rame dei negozi e i comodini del Capo, le foto di Amicòfe senza veli, i martelli&coltelli di Amicòfra, etc.);
- imporre ViaRigattieri come gruppo vincente e à la page sulla Rete;
- aumentare gli introiti economici della società per finanziare progetti no-profit (vacanze in Marocco, ricerche su filosofi francesi viventi, l'affitto di appartamenti a Parigi e Boston, l'università di mio figlio).

Per tutti i frequentatori più o meno avventizi del blog è caldamente consigliata la partecipazione alla nuova fanzine online, pena ripercussioni indicibili: tipo, per es., che non scriviamo più post (è una minaccia seria, stavolta, eh!).

La svolta è segnata. ViaRigattieri è su FB. Perché noi siamo chic, ma anche molto radical.

Appunti di riflessione politica. Di quella volta che mangiai all'UNESCO.

sabato, settembre 19, 2009



Quella volta che mangiai alla mensa dell'Unesco tornai a casa con la fame. Tra taboulé e cous-cous, insalate di germi di soia e verdure bollite tutti gli utenti eravamo modernamente affratellati in un solo menu, politicamente rispettoso delle religioni di tutti, proitenicamente irrilevante, tragicamente incapace di assumere una chiara e netta decisione alimentare. Se per fare un compromesso tra le limitazioni religiose e culturali di tutte le etnie del mondo ci si ritrova a brucare, non è forse il caso di rivedere le strategie della negoziazione?
E non oso pensare cosa si mangerà alla FAO!


per un'interpretazione globale dell'ultimo arbu di capossela

martedì, settembre 15, 2009

capo: Io credo che, a distanza di un anno circa, possiamo dire tranquillamente che "Da solo" è un disco minore di Capossela. Ti sentiresti di smentirmi?

cofe: beh, minore...
da un certo punto di vista è chiaro che è minore. Per esempio non è paragonabile alla risposta di pubblico di Ovunque proteggi, che ha affermato per un minuto Capossela come leader della scena musicale italiana (titolo ora saggiamente ritronato nelle mani del Blasco). Minore come temi, minore perché intimista, minore perché da solo. Insomma la scelta di una minorità come sorta di digressione, come détour stilistico, come minimalizzazione rispetto alla scorpacciata di echi che aveva fatto dei precedenti arbu dei proteiformi capolavori. Sì, una minorità voluta, con perle cantate sottovoce, che non possono che arricchire la sua sorpendente galleria. E anche, diciamolo senza paura di mancare al caposselismo, con degli scivoloni imbarazzanti (Orfani ora, In clandestinità, qualche altra), dovuti naturalmente al fatto di aver voluto cedere a quella stupida volontà di soggettivizzare l'arte, cosa che ha due esiti possibili (vedi: Per un'interpretazione globale della musica italiana): Eros Ramazzotti e Francesco De Gregori. Ovvero, il nulla messo in strofe o i capolavori inaccessibili, meravigliosi solo a costo di essere adombrati (quindi, capisci bene che con il soggettivismo di De Gregori bisogna stare attenti, è un post-soggettivismo, alla Archiloco, se intendi quello che voglio dire, e sennò vediti la Nascita della Tragedia). A Capossela non riesce di essere soggettivista (o almeno non sempre, o almeno solo a costo che la sua canzone resti a manovella, ovvero entro il meccanismo musicale dell'impersonale oggettivo), e questo è il grosso limite di (alcuni brani di) Da solo.

o no?

capo: è mai possibile che debba sempre gabbarti pur di farti scrivere dei post?

Dal vostro uomo a Venezia

martedì, settembre 08, 2009

"Gentile Mr. Happy

Le confermiamo con la presente di aver effettuato il suo accredito stampa alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, edizione n.66..."

E così fu che ViaRigattieri entrò a Venezia dalla porta principale.
Non tra il pubblico, cari lettori, e nemmeno tra quelle figure del sottobosco cinematografico che si aggirano invasati sul Lido: press agent fasulli, scrittori noti soltanto a loro stessi, musicisti falliti che cercano di evitare di soccombere definitivamente all'oblio.
Eh no, carissimi, niente di tutto ciò.
I Rigattieri, quest'anno, sono entrati nel giro che conta: frequentazione dell'Excelsior, accessi riservati alle feste notturne, strette di mani con Produttori e Presidenti.
Perchè ragazzi, è venuto il momento di dirlo apertamente: i Rigattieri, della crisi economica, se-ne-fot-to-no! capito?
Vantandosi di essere a poco a poco diventati una malattia che ha contagiato l'intero organismo culturale italiano (accademia, editoria, quotidiani, internet, etc.), i Rigattieri quest'oggi fanno un ulteriore passo in avanti: mettono le mani sulla macchina dei sogni, quel mondo fatato che incanta e trascina l'inconscio politico collettivo, il magnifico incanto che controlla e manipola le menti dei ritardati che scaricano film o vanno ancora da Blockbuster (e riconsegnano i film in ritardo, pagandoli in totale 15 euro; nota autobiografica del redattore).
Il progetto è ancora in stadio iniziale e viene per il momento seguito sul campo dal sottoscritto Happy perchè, come al solito, c'è sempre bisogno di un fesso che si sporchi le mani (non capisco comunque, perchè il fesso debba sempre farlo io; nota autobiografica del redattore2).
Dunque il cinema, signori.
Perchè laddove c'è la possibilità di scalare il potere senza fatica, i Rigattieri ci sono.
Perchè i sogni, in tempi di contratti in scadenza, valgono oro. E se sentite in giro l'odore del sangue, vuol dire che i Rigattieri sono già arrivati.

p.s.: pare The Informant! un buon film, oggi arrivano Lo spazio bianco della Comencini (quella, delle due sorelle, che non scrive film sull'onda del ciclo..) e naturalmente Placido. C'è anche Clooney, con la Canalis; ma a quello lì, si sa, ci piace il mandingo.

immagine: http://www.flickr.com/photos/btre/2240935083/

Baarìa

giovedì, settembre 03, 2009

mi scrive giustamente mauro:

ma Baarìa, che però è stato girato a tunisi con i soldi dei contribuenti siciliani finiti direttamente nelle tasche di un entusiasta presidente del consiglio a legittimare il suo conflitto di interessi da parte di un regista che sembra girare ormai sempre lo stesso film e sempre come se fosse uno spot pubblicitario e in cui capisci che qualcosa è successo solo nella scena finale quando tentando di imitare leone compare il solito retorico piano sequenza che termina in uno sguardo che si rivolge verso la telecamera, ci piace?

che gli dico?

fa ride

sabato, agosto 29, 2009

secondo me fanno ride le salviette umidificate che pandy ha portato a bucicò e piazzato sul cesso: si chiamano Bout' (de) chou, ma la cosa che più fa ride è lo slogan: laisse les fesses propres et douces

Sciascia, un ricordo di Camilleri

giovedì, agosto 20, 2009

" Una volta, leggendo il carteggio Pirandello-Martoglio, mi venne d’osservare che in Sicilia l’esercizio dell’amicizia è un’arte assai difficile da praticare. Infatti, tanto più profonda e sincera è l’amicizia siciliana e tanto è più fragile, basta un nonnulla a romperla. Dopo anni d’intesa, di collaborazione, di aiuto reciproco, Pirandello rimprovera a Martoglio una parola. Una sola parola, non una frase, che non andava detta. E da quel momento non si scriveranno più, non si frequenteranno più.

In Sicilia non c’è bisogno di chiedere un favore a un amico, è a questo che spetta il compito d’intuire ciò che l’altro vuole e farlo sollecitamente senza dirglielo. Tra loro non possono esistere zone d’ombra, segreti, ci si è detto tutto come fanno gli innamorati. E tra i due amici, più che la parola, il mezzo di comunicazione più usato è sempre il linguaggio muto, fatto di sguardi e di gesti appena avvertibili.

In questo senso, posso tranquillamente affermare di non essere mai stato amico di Leonardo Sciascia. Tranne che per una cosa: il nostro linguaggio muto funzionò benissimo fin dal primo incontro. I suoi amici veri, quelli della cerchia più stretta, lo chiamavano «Nanà», io mi rivolgevo a lui con «Leonà». E Sciascia mi chiamò sempre per cognome, «Cammillè», con due emme, alla contadina.

Il primo contatto che ebbi con lui fu epistolare. Lavoravo con Angelo Guglielmi al servizio sperimentazione Rai, Angelo era fresco di successo per aver varato Candid camera ed ebbe l’idea di produrre uno sceneggiato su un tema allora ancora inedito, la mafia. Sciascia aveva appena pubblicato Il giorno della civetta e perciò gli scrissi se voleva lavorare per noi. Gli proponevo il soggetto e la sceneggiatura sul caso Notarbartolo, un delitto degli inizi del ’900, che per primo mise in luce il rapporto mafia-banche-politica. Mi rispose declinando l’invito, mi spiegò che la documentazione a lui indispensabile, e cioè la lettura dei vari atti processuali, gli avrebbe portato via troppo tempo.

Qualche mese dopo il Teatro Stabile di Catania mi propose la regia del Giorno della civetta, al cui adattamento stava lavorando Giancarlo Sbragia. Accettai con entusiasmo e cominciai a seguire il lavoro di trasposizione dal romanzo alla scena. Un pomeriggio Sbragia mi fece trovare a casa sua Sciascia che non avevo mai visto prima. L’adattamento era quasi terminato e Sbragia glielo lesse. Sciascia ascoltava in silenzio e ogni tanto mugolava o bofonchiava. All’epoca parlava pochissimo, si esprimeva più che altro con monosillabi. Sbragia, interdetto, a ogni bofonchio s’interrompeva, prima guardava lui e poi me.

Io gli sorridevo rassicurante. Perché, guardando a mia volta Sciascia e lui guardando me, avevo capito che l’adattamento lo soddisfaceva. In quell’occasione gli domandai cosa ne avrebbero pensato i mafiosi del nostro spettacolo. E lui: «Saranno seduti in prima fila ad applaudire, la mafia è vanitosa». Poi, con mio grande rammarico, dovetti rinunziare a quella regia. La portò a termine un altro.

Nella primavera del 1977 tornai per una decina di giorni al mio paese in Sicilia. Un giorno, Sciascia mi telefonò invitandomi ad andarlo a trovare a Racalmuto. Lui abitava fuori del paese, in aperta campagna, una località detta «la Noce». Mi accompagnò in macchina un amico. \ Ci venne ad aprire una signora che allora non conoscevo, ci domandò cosa volessimo. Mi presentai, risposi che ero stato invitato da Leonardo. Gentilissima, la signora, che era la moglie, mi disse che suo marito era andato in paese, ma che sarebbe tornato al massimo entro una mezz’oretta. Se intanto volevamo accomodarci…

Decidemmo di raggiungerlo in paese, che era poco distante. All’inizio del corso che attraversa Racalmuto, parcheggiammo e scendemmo. Erano le 11 di una mattina di maggio, splendida, luminosa, calda. Lungo i marciapiedi molti racalmutesi avevano sistemato delle sedie e stavano in silenzio a godersi il sole, ad «allucertolarsi».

Mi avvicinai a due quarantenni che parlavano fitto ridacchiando: «Scusino, hanno visto passare Sciascia?».

Alzarono la testa, mi guardarono stupiti. «Come ha detto?» domandò uno dei due.
«Ho chiesto se avevano visto passare Sciascia».
«Non lo conosciamo» mi rispose quello, troncando.
Fatti alcuni passi, nuova fermata davanti a un gruppo di quattro anziani. «Scusino, conoscono Sciascia?».
«Cu?» mi domandò stupito uno.
«Leonardo Sciascia, lo scrittore».
«Iu nun lo canuscio. E voi lo conoscite a un certu Sciascia?» chiese rivolto agli altri tre.
Quelli risposero quasi in coro: «Nonsi, non lo canuscemo».
Giungemmo tra i tavolini all’aperto di un caffè. Due o tre erano occupati. Ci sedemmo un pochino scoraggiati. Arrivò un cameriere.
«Due caffè. Senta, per caso lei conosce Sciascia?» chiesi.
Mi guardò allarmato. «No. Chi è? Perché?».
«Vuole domandare per favore se qualcuno dei signori qui seduti lo conosce e se l’ha visto passare?».
Il cameriere andò verso i tavolini occupati, parlottò a lungo, tornò allargando le braccia. «Non lo conosce nessuno».
La situazione però era cambiata di colpo. Ora tutti ci stavano puntando gli occhi addosso. Era come se avessi fatto domandare loro se avessero visto transitare Oscar Wilde.
Bevemmo il caffè, ci alzammo.
«Torniamo alla Noce?» propose il mio amico dopo un po’.
«Facciamo un ultimo tentativo».
Passava un ragazzino, poteva avere un tredici anni, l’aria molto sveglia. «Senti, tu lo conosci a Sciascia?».
«Sissi» rispose pronto.
«Sai dove possiamo trovarlo?».
«’N farmacia è. Chiddra» fece, indicandocela.
Ci precipitammo nella farmacia. Entrammo, c’era una cliente, aspettammo il nostro turno.
«Desiderano?».
«Cercavamo Sciascia».
Il farmacista non rispose subito. Stette un pezzo a squadrarci da capo a piedi. Infine dovette rendersi conto che non eravamo né killer né giornalisti importuni.
«È andato alla posta».
Ci spiegò dove si trovava l’ufficio postale. Arrivammo col fiatone. Era deserto. C’era un’impiegata dietro uno sportello.
«Cerchiamo Sciascia».
«È uscito ora ora».
Guardammo nei paraggi, non lo trovammo.
«Torniamo alla Noce» dissi, definitivamente sconfitto.
E in quel momento mi sentii chiamare. «Cammillè!».
Era Leonardo che arrancava col bastone verso di noi. Ci abbracciammo. «Andiamo a prendere un caffè» propose.
C’era un bar a due passi. Mi mossi, mi fermò. «No, quello no».
Mi prese sottobraccio e mi fece rifare, a lento, chiacchierando, tutto il corso.
Quando passò davanti ai tavoli all’aperto del caffè, quelli che avevano negato cinque minuti prima di conoscerlo si alzarono e lo salutarono con rispetto. Lo conoscevano benissimo. E lo stesso fecero i quattro anziani e i due quarantenni.
Allora capii che tutto il paese aveva voluto proteggere la privacy di Sciascia da due sconosciuti. E che Sciascia mi stava facendo ripercorrere il corso tenendomi sottobraccio per far sapere a tutti, in questo modo, che io ero un suo amico. Che io non gli portavo disturbo.
Andammo assieme alla Noce. Al momento di accomiatarci, mi invitò a tornare da lui l’indomani, voleva farmi vedere uno scritto pirandelliano che aveva prestato a qualcuno.
«Vengo qui o in paese?».
«Vieni in paese».

Il giorno appresso il mio amico non poté accompagnarmi, presi un taxi. Lo feci fermare all’inizio del corso. I due quarantenni erano ancora lì, sulle loro sedie. Forse avevano passato la notte all’aperto.
Appena mi videro, balzarono in piedi: «’U profissuri ora ora passò! È annato di là!».
E stavolta, guidato dai racalmutesi, ci misi poco a incontrare Sciascia. "


Andrea Camilleri - La Stampa, 28/06/2009

I clown(s)

martedì, agosto 11, 2009

Comincio a capire quali siano i miei punti deboli. Ci sono cose a cui non riesco a resistere, e finisce che mi commuovo. Tra queste, gli epitaffi (magari non proprio “Padre affezionato, marito devoto, amico sincero, lavoratore indefesso, cittadino esemplare”), i film di Fellini (so che potrebbe suonare un po’ snobbettino, ma tant’è), i pagliacci. Ora, visto che ho trovato queste tre cose insieme, ho pensato di infliggerle alla comunità.
Segue l’epitaffio per la scomparsa del pagliaccio nel film(-documentario) di Fellini I clowns.

“Signore e signori,
vola per le osterie una triste notizia: il signor Augusto, detto pagliaccio, s’è dipartito, involato deceduto: è morto. I suoi pochi amici e i suoi molti creditori piangono l’immatura scomparsa avvenuta a soli duecento anni d’età. Non si poteva dire bello, non si poteva dire intelligente, non si poteva dire niente su di lui, perché ad ogni più piccola osservazione, replicava lanciando zampilli di saliva sulla faccia. In questa triste occasione dovrei fare un discorsetto sulla natura del trapassato in modo da far restare un buon ricordo di lui. Amici carissimi, l’impresa è disperata. Come faccio a parlarne bene? È difficile trovare un solo episodio in tutta la sua sgangherata esistenza che ci potrebbe far dire “ma in fondo era un bravo figlio”. È sempre stato un buono a nulla, un pigro, ubriacone, attaccabrighe, scansafatiche, disonesto nel giocare, infido nelle amicizie, tormento del padrone di casa e dell’esattore della luce. Piangiamo tutti la tragica notizia che egli è morto adesso anziché nel momento in cui l’ostetrica ha detto “è un maschio”. Nella sua lunga e deplorevole esistenza si è dedicato ai secchi d’acqua in faccia, uova rotte sul cranio, pennellate di sapone nella bocca. Suonava il trombone coi piedi e ballava il tango con le orecchie. Faceva ridere i bambini e piangere i propri figli. Io, nella mia qualità di clown bianco e suo fraterno nemico ho cercato in ogni modo di impartirgli una civile educazione a base di legnate sulla testa, pestate sui piedi, cazzotti sulla nuca. Ma l’Augusto pagliaccio, ribelle ad ogni consiglio, ha continuato la sua turpe carriera di grottesco ubriacone, continuando imperterrito a dibattersi sotto una pioggia di uova marce, schizzi d’acqua sporca fino a crepare soffocato da un uovo di struzzo che, entratogli nel naso, si è bloccato nella profondità della terza carotide della quarta faringe a sinistra provocando l’arresto dei polmoni e la fuoriuscita dell’anima dall’orecchio destro.
Egli non è più. Per fortuna rimango io. Piangete, fratelli, se volete; per mio conto ho già pianto fin troppo quando lo dovevo sopportare al mio fianco nella pista del circo.
E così sia”.


Mi rendo conto, rileggendo, che così rende infinitamente meno che nel film, e dunque ho pensato di mettervi pure il link alla scena su Youtube. Ora, però, il punto dolente è che la scena in rete comprende anche il finale del film, il che potrebbe effettivamente creare qualche problema alla vostra futura visione del medesimo, che mi dispiacerebbe molto rovinarvi (salvo che non l'abbiate già visto tutti).
Insomma, vedete voi che fare, che ormai siete grandi, e io c’ho già da pensare al vestito da Priscilla per la festa di ferragosto.

La gnosi del Ferari

mercoledì, agosto 05, 2009

...e intanto il sole schicchera gigliese...


Temevo che sarebbe successo. Ferari mi aveva consigliato quel libro, lo aveva regalato a destra e a manca, era uno dei suoi preferiti. E io, farlocco, gli credetti. Lo ascoltai. Mi disse anche che ne aveva copiato un pezzo a mo' di dedica, nel regalarlo a un'amica. Ritozzo, il ferari, mica scemo. Giunto quasi alla fine, gliene chiesi conto:

- Ferari, scommetto che hai ritorcerato la dedica che hai scritto su quel libro. O forse la strimemori?

Lui me la ferestò, via sms, com'era solito. Aggiunse anche che per lui era il momento più alto, quello più scadrante.

- Scadrante? - dissi io, per nulla fressato, - A me è parso metrofico come tanti altri!

- Non saprei trovare aggettivo più icastico - disse lui, - non direi che fosse carcilico né mi pare opportuno parlare di fogino. Di certo non metrofico. Si vede che non sei entrato molto in ipsi.

Non ci vedetti più dalla lorba.
- Sei il solito pringale, c'è poco da fare. Invece di argomentare, forelli di terlizze le solite chiacchiere. Ma non mi saggellerai: sono vèlito, io.

Al che lui, cernito come non mai:
- Non mi aspettavo che fossi così filzione. Vorresti pilliari (come dite in Sicilia), e invece continui a prestolare la emba. Ma ricorda: "chi anesta lo zulivo in marzo non lo carlinerà certo in tullesi". Anesta. Come vedi non te le mando a dire.

Di certo non aveva imparato niente del siciliano, lo usava come se fosse un gerzone. Ma rimasi sluto, e non potei che aggiungere un classico:
- Coresto...
Poi mi ripresi. Lo accusai, passai al varsellotto, e gli dissi che se fosse stato meno forlacco, avremmo potuto scrivere in onore di Maraini, che lui certo bevenzava dal sapere chi fosse, un gerlin-post per questo blog da tempo nellicato. Sapete cosa ebbe l'affrenza di rispondere?

- Sono forlacco e non me ne scotussisco. Specie ora che sono in carolla. Quanto a Maraini, è stio: l'ecolato. E post a più colenze non so tamarli, noramente.

Questa volta aveva dergito ogni limite. Offeso, sconcertato ma soprattutto respotico, per essere esatti, non potei che congedarmi, forse per sempre, con un sorianico:
- Non ti peritosco più.

ricordi di compagni

martedì, luglio 21, 2009


Solo occasionalmente ciò che si accompagna all'esperienza di un libro o di una musica ha un'importanza simile a quella dell'esperienza dell'opera propriamente detta. Gli eventi associati ai film sono invece quelli delle relazioni tra compagni, o della loro assenza: il pubblico di un libro è essenzialmente solitario, un'anima alla volta; il pubblico di una musica e di uno spettacolo teatrale è essenzialmente più vasto del circolo degli amici - l'insieme della città; il mondo di un film è composto da diversi gruppi di compagni, o di anime smarrite che hanno perso qualcuno. Non m'interessa se chiunque può capire la settimana di incanto che ho vissuto a 12 anni, immerso nella lettura dei Miserabili; ci saranno sempre dei bambini di 12 anni, e quel libro sarà sempre lì per loro. Ma i film, a meno che non siano dei capolavori, i film non saranno più lì come una volta! Le ore passate a guardare La tragedia del Bounty, con Charles Laughton e Clark Gable; Capitan Blood; L'amante indiana; Il bacio della pantera; Cantando sotto la pioggia [...] e cento altri ancora - quelle sì che erano ore e giornate d'incanto. Importantissime, ma solo per quel momento; irrecuperabili, se non nel ricordo e nell'evocazione; scomparse.
Se guardate oggi quei film per la prima volta, magari v'interesseranno; forse vi toccheranno anche.
Ma non proverete mai quello che ho provato io.

Stanley (Stanlio) Cavell

Brüno: un film che dice VAFFANCULO.

martedì, luglio 07, 2009


Forse per la prima volta nella mia vita, oggi ho visto un film gay. Non una storia d'amore strappalacrime i cui protagonisti devono superare mille difficoltà personali e sociali per stare insieme per poi nemmeno riuscirci (Brokeback Mountain), non la storia di due ragazzi che vogliono andare insieme al ballo della scuola e devono superare i pregiudizi dei benpensanti (forse questo era Dawson's Creek, ma sono sicuro che andrà bene lo stesso..), non la storia di un attivista politico che lotta per la liberazione e l'orgoglio omosessuale (Milk). Questi sono tutti film per eterosessuali, pensati per loro e costruiti per piacere a loro - o per il loro piacere - nonché, probabilmente, scritti da omosessuali, il che inspiegabilmente finisce per rendere il tutto ancora un po' più fasullo... Quello che ho visto oggi, invece, è un film fatto chiaramente da eterosessuali, ma da eterosessuali con le palle, e così ne è uscito, sempre un po' inspiegabilmente, un film gay. Come ho scritto nel titolo, questo è un film che dice vaffanculo: vaffanculo al cliché dei gay nella moda, vaffanculo al non mostrare cazzi nei film, vaffanculo ai cristiani che vorrebbero curare gli omosessuali, vaffanculo a chi pensa che siccome va a caccia e fa a botte lui sì che è un vero uomo, vaffanculo a chi si sente alternativo perché fa gli scambi di coppia ma non ha un minimo di rispetto per quelli che ancora vengono chiamati diversi, vaffanculo a chi fa di tutto per andare – o mandare i propri figli – in tv, vaffanculo a chi pensa che la guerra sia una cosa seria che va trattata con rispetto, e soprattutto vaffanculo a chi si mette le mani nei capelli e piange quando vede due uomini che si baciano, si toccano, si leccano.. insomma, scopano e si amano. Questo film dice, anzi grida vaffanculo, ad ogni scena. E a chi pensasse che gridare ed essere sguaiati è troppo facile, vorrei far notare che sì, è vero, forse è facile gridare, ma dato che oramai sentiamo urlare continuamente e solamente contro i negri, gli extracomunitari, i finocchi... insomma contro tutti quelli che, per un motivo o per l'altro, non piacciono... beh, in mezzo a questa oscenità è bello sentire qualcuno, ogni tanto, che grida, molto forte: VAFFANCULO. E voi andateci, a fare in culo – e godete, se potete.


partire

domenica, luglio 05, 2009

Partire è sempre un po' morire, si sa. Se però, tra le altre cose, la meta del tuo viaggio è un luogo in cui vivi da un po' di tempo, l'arrivo è meno traumatico: riconosci le strade, le persone che incontri, la munnizza che avevi lasciato a casa e che i tuoi co-buciconi non hanno tolto per non provocare alcun effetto di straniamento: anzi, a che c'erano, ne hanno aggiunta un po'. Quando ti svegli la mattina, per esempio, è dolce ritrovare il grido della signora che, con cadenza regolare, a una distanza non meglio precisata, probabilmente da dentro casa sua non troppo distante da qui, intona il suo AAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!, o ancora percepire distintamente la suoneria di Arancia Meccanica del telefonino di qualche sadico vicino. Sono cose che alleviano di molto il senso di morte insito nella partenza. Ma non usiamo termini forti: non è un vero senso di morte, è solo un più blando "un po' morire", che mi torna in mente sin da ieri quando, sull'aereo che mi riportava a Parigi, ha trovato l'occasione di essere sbeffeggiato ancora una volta. Non so da quanto non prendiate un volo Ryanair; a me non capitava da un po', l'ho ripreso la settimana scorsa e ho notato una macabra novità. A parte una considerazione generale, che riguarda tutti i voli: nel momento che precede l'atterraggio il capitano comunica all'equipaggio di prendere posizione perché stiamo per toccare terra. Si sa. O forse crediamo di saperlo, perché per quanto mi riguarda io sento qualcosa di indistinto che potrebbe benissimo essere un "CABINCRIÙPORCPUTTSIAMNELLMERD", prima di chiudere la comunicazione e provare a salvare la pelle. Tu comunque non ci puoi fare niente, ti convinci che gli ha detto "ASSITTATVORATTERROMANCFOSSSCHUMACHER", e aspetti guardando fuori dal finestrino e godendoti lo spettacolo. Ma una volta atterrati, tutto apposto, immediatamente dopo l'applauso tipico dei passeggeri (siculi. immediatamente dopo l'applauso tipico dei passeggeri siculi. immediatamente dopo questa splendida usanza che altri popoli meno felici sconoscono), ecco la beffa: subito dopo l'applauso e in seguito a una ragionevole certezza del capitano di riuscire a frenare prima di schiantarsi, ecco che dagli altoparlanti suona trionfante un motivetto: PÀPPAPAPÀAAAAAAAAAAA!
E che mi rappresenta 'stu motivetto? La melodia ha il chiaro senso di un: "fiuuuuuu, anche per questa volta è andata, squillino le trombe". Che sia un modo raffinatissimo di Ryanair per sfotticchiare un po', e nello stesso tempo valorizzare nella percezione dei clienti, l'antico detto da cui abbiamo preso le mosse?

piccoli rancori verso le maledette FS

venerdì, giugno 19, 2009

Quando ero un giovane erasmus scrissi un racconto dal titolo (un grande titolo) “Teoria implausibile sul ritardo dei treni”, di cui non svelo il contenuto ma che potrete trovare nelle migliori librerie tra un’ottantina d’anni, quando pubblicheranno l’edizione critica dei miei scritti giovanili. Per ora basti sapere che l’avevo scritto in odio all’associazione a delinquere targata FS.
Anche oggi, dopo che mi hanno regalato un ritardo di 5 ore (5 ore), grazie al quale ho mancato la cerimonia di commemorazione del mio maestro, sento un odio analogo, ma non voglio parlare di quello (molti di voi hanno ricevuto le mie madonne già via sms). Ma di un piccolo aneddoto, con questione politico-morale annessa.
Ero salito sul treno (già in ritardo di un par d’ore) senza biglietto (chiedendo se potevo salire ad un controllore italiano, che mi sbologna ad un altro controllore italiano, che mi mette nello scompartimento con una coppia, di cui, per motivi di bon ton, non dirò che era di colore). Facciamo conoscenza: io pesto un piede alla signora, le dico, internazionalmente, “Sorry” e lei mi dice “Comprend pas l’italien”. Poi mi seggo, scopro che sono diretti a Napoli (“Vacanze?”, “No andiamo a comprare scarpe e borse” (tarocche) “che a Napoli costano meno che dai cinesi”. È sempre lei a parlare, lui ride continuamente, che sembra non sia mai stato così felice). Continuiamo a parlare, e lei ce l’ha parecchio con i treni italiani, sempre in ritardo, e ne parla anche con un certo astio, venato forse di un nonsocché di razzistico.
Poi arriva il controllore. Giovane, capello alla Cristianoronaldo e orecchino. Ci dice (in italiano, e magicamente anche la coppia comincia a capirlo): “il biglietto sarebbe cento e trenta euro” (in realtà, secondo internet, 125, ndr), “sennò, senza biglietto sono cento euro”. “Cioè senza biglietto?”, chiedo. “Nel senso che devo controllare io e non ve li controllo”. E con i vostri trecento eurini me ce compro l’aipod nuovo, pensa, senza sapere che io leggo nel pensiero. “Cioè? Irregolare?” articola il tizio che è con me nello scompartimento, finalmente in pausa dal riso. “Cioè che risparmiate 60 euro ‘n due. Capisci?”. Lui capisce subito. Io resisto: “Ho solo il bancomat. Ti posso pagare col bancomat?”. Lui non capisce che lo sto provocando: “eh, logicamente no. Puoi provare ad andare al bar, e sentire se ti fanno pagare col bancomat in cambio di contante”. “No guarda, prendo il biglietto normale”. Lui è dispiaciuto, ma è un signore: “Allora te metto in cabina da solo, così” aggiunge quando siamo in corridoio “non te tocca sta’ co’ ‘sti due”.
Dopo un po’ rientra, seguito dal controllore francese (quello che mi fa pagare il biglietto e non il suo parrucchiere) e, faccia come il culo, dice “Ahò, ce l’ho fatta a strapparti uno sconticino comunque: sono 125 euro”. (il lettore attento avrà notato l’incongruenza).

Alle 9.30, poi, viene a riportarmi il documento. Senza che io gli chieda niente mi dice: “Per le 10 siamo a Firenze”. Erano le 12.21, quando siamo arrivati.


PS. E per concludere, come faceva Esopo, la morale (però interrogativa, che siamo gente moderna): lo dobbiamo denunciare questo tizio? E soprattutto, sarebbe di sinistra denunciarlo? Io un’idea me la sono fatta.