NRC XIV – Ballata dell’odio e dell’amore

giovedì, giugno 30, 2011



«Balada triste de trompeta», si intitola (in originale), e bisogna ammettere che è un titolo molto poetico, e anche il vecchio clown che ride sull’affiche ha quel certo magnetismo al quale difficilmente riesco a resistere (aggiungendo mentalmente: «E basta con questa cazzata che i pagliacci fanno paura! Pensa a Fellini, piuttosto!»). Però prima do un’occhiata fuggevole alla sinossi in francese, giusto un paio di righe, a scopo evocativo: un circo viene sconvolto dalla guerra civile spagnola, dice. «Che meraviglia:» penso «il circo come resistenza, dolente e scanzonata, al fascismo». «Un Heinrich Böll in salsa antifranchista», aggiungo anche, compiaciuto, già pensando alla recensione che dovrò ben scrivere, e allora tanto vale avvantaggiarsi.


Poi niente, il film è un po’ diverso: più che di guerra civile (breve episodio introduttivo) si tratta soprattutto di gente che fa il circo negli anni ’70 (però sempre sotto Franco), e che svalvola di testa, si massacra con ogni possibile oggetto contundente, si ammazza e scopa in continuazione (De la Iglesia, il regista, sembra il gemello impazzito di Tarantino), con un ritmo forsennato e delirante: una furiosa e sanguinolenta grotesque di alta scuola. Pagliaccio triste e pagliaccio tonto, uno contro l’altro, due volti (tumefatti, sfigurati, mostruosi: uno, per dire, a un certo punto si trucca con la soda caustica) di una stessa inevitabile follia.


Un film mitico, ovviamente, ma non proprio per tutti i palati, la cui estetica empirica è contenuta nella battuta di un colonnello repubblicano che introduce la prima carneficina del film: «Un pagliaccio con un machete? Li farà impazzire!»[1]. E la cui morale è espressa nel consiglio che il padre-clown catturato dai falangisti dà al figlio-futuro-clown-matto, all’alba della dittatura fascista: «Tu non puoi essere il pagliaccio tonto. Tu farai il pagliaccio triste. Ma c’è ancora un modo per essere felici… la vendetta»[2]. Che secondo me, in un’epoca in cui va di moda rinnegare piazzale Loreto, non è neanche una morale così scema[3].



[1] ATTENZIONE: i dialoghi qui riportati potrebbero essere alquanto creativi (cioè non proprio fedeli). È il vantaggio di andare a vedere film in straniero sottotitolati in straniero.
[2] Ogni tanto, durante il film, il padre riappare giusto per urlare «vendetta!» e risparire.
[3] Compagni piddini, si fa per ridere.

All'ombra del racconto I. La gerarchia del risveglio

domenica, giugno 26, 2011

Riprendiamo dal post di prima: “alcuni scrivono, ma non pubblicano perché il mondo non è pronto”. E aggiungiamo “alcuni non scrivono, ma pubblicano sul blog, perché del mondo se ne curano poco”. Inauguriamo con questo motto la pagina letteraria del nostro blog: All'ombra del racconto, d'ora in poi A'odr.  Solo alcune piccole regole: 

  • non importa chi sia l'autore e i commenti riguardano la critica del racconto 
  • i diritti, così come le responsabilità pensali, sono tutti del capo
  • i personaggi e i fatti non sono casuali, ma facciamo finta di si
  • qualsiasi trasposizione cinematografica deve avere l'autore o un suo prescelto come sceneggiatore e/o protagonista, marcellocofino come controfigura per le scene di sesso, e un posto per tutti quelli della combriccola, tranne quelli che hanno la fortuna di vivere in isole più belle di altre. 
  • il ricavato va in beneficenza all'associazione dottorandi anonimi.


La gerarchia del risveglio

A.  Cazzo, fai piano!, brontolò A. rompendo il silenzio imbarazzante e il buio della notte che come ogni mattina stava per svendere la periferia romana a un giorno desolante.

Poco male, tra meno di mezz’ora la signora del piano di sopra avrebbe cominciato a strisciare i mobili, come fa sempre quando alle quattro e mezza del mattino decide che la sua vita da quel giorno sarebbe cambiata. I colpi di tosse fanno pensare che abbia sempre una sigaretta in bocca. E anche la sua voce rauca, che rompe in pianto quando alle cinque già chiama la madre novantenne per raccontarle che ha sbagliato tutto. Il monnezzaro dell’appartamento accanto avrebbe tra poco acceso il televisore a tutto volume per commentare le solite notizie: «Se parla solo de ste ragazzine morte ammazzate, poerelle. E de ste mignotte e de sto depravato che ce fa er Bunga Bunga... Ma lo sai che ce fa bene! ‘nvedi io 'ndo sto e chi me so sposato... Amo’ un te la prenne che sto a scherza! Er caffè?». Verso le cinque, dalle fessure della porta di ingresso, assieme ai primi cenni di luce, sarebbero arrivate le consuete note, a volte galoppanti delle Bagatelle di Beethoven a volte malinconiche dei Notturni di Chopin, a volte meravigliose della prima sinfonia di Mahler. In questo angolo sperduto, abita un professore, che ogni mattina per essere a scuola alle otto deve alzarsi alle cinque. Poi comincia il suo vero calvario, viene crocifisso da un’orda di liceali verso mezzogiorno e poi sepolto nel traffico delle due. La resurrezione invece da queste parti non è contemplata. 

B. Hai ragione scusa, torna a dormire.
A. Che ore sono? come faccio a dormire con te che fai sto casino. Chiudi la porta, no!
B. Sono le quattro e qualcosa. Devo essere a Termini alle sei. Scusa, cerca di dormire.
A. Ecco, lo sapevo adesso comincerò a sognare le fotocopie. Che palle, non basta il lavoro... volevo dormire almeno fino alle otto, adesso mi riaddormenterò e sognerò le maledette fotocopiatrici assassine. 
Neanche il tempo di finire la frase e A. si era già riaddormentato, mentre una fotocopiatrice di ultima generazione gli rosicchiava il piede destro.

La periferia resiste ai tempi e alle mode. Non è una questione di lontananza dal Centro. Ci sono periferie a ridosso delle mura aureliane. E invece ci sono posti a ridosso del raccordo che tutto sono tranne che periferie. È una questione di volti e di sguardi, di tempi, di linguaggio, di confine, di passaggio, di ombre. Ma soprattutto di volti, quando uno si mette a scrutare i volti in periferia, comincia un viaggio rischioso. C’era un bigliettino una volta, attaccato a un albero, giù a Villa Spada:

Esiste ancora la periferia, dove l’odore del rosmarino armato di lanceolati rametti, sfida il fumo chiassoso della città. Dove i binari luccicanti al sole corrono spericolati tra gli arbusti. Dove si nascondono anime anonime, dimenticate dal destino. Dove i binari abbronzati di ruggine, invece, tra gli arbusti spinosi fuggono e si feriscono, lasciando strisce luccicanti di metallo vivo.

Esiste ancora la periferia, dove sul volto della gente sono stampate carte geografiche di tutte le passioni insieme.

Va bene, cinque meno un quarto, pensò B. In dieci minuti sono a Largo Labia. Faccio in tempo per la prima corsa del 90. Il 90 è un serpentone silenzioso. L’unico filobus della città. Se non fosse per le buche e le condizioni della strada sarebbe anche silenzioso. A quest’ora la città non è trafficata. Se riesco a sopravvivere alle chiacchiere delle vecchie nel 90, tra quaranta minuti sono a Termini, ce la dovrei fare. In questa città le persone hanno un disperato bisogno di parlare. Ho il sospetto che alcune di queste vecchie che sempre affollano gli autobus si alzi apposta, per trovare qualcuno con cui parlare. Sarà la noia che non le fa dormire. Noia e solitudine ammazzano il sonno. Ma la disabitudine ammazza il dialogo e così, appena gli dai un minimo di confidenza cominciano un piglio così polemico che ti fanno pentire di aver aperto bocca e preferiresti avere una conversazione con il Monnezzarò Amo’.

La città si veste a strati. Mano a mano che ci si avvicina al centro, la gente si cambia di vestito. In periferia si usano le tute da ginnastica. Dopo Viale Adriatico, si arriva in una zona di finta periferia, la gente indossa pantaloni e camicia, scarpe di cuoio, qualcuno un vestito. Poi ci sono vestiti e vestiti. Anche a Largo Labia qualche impiegato del centro indossa un vestito. Ma, tolta anche la qualità inferiore rispetto ai vestiti del centro, lui lo porta come una tuta. Dalla Nomentana cominciano i signori in vestito che vanno a lavorare nelle banche del centro. Oppure i professori dell’Università. A seconda delle facoltà, più o meno eleganti. Ma in quel caso è la spocchia che li contraddistingue. Questi però li vedi poco sull’autobus. Vanno a lavoro in macchina, e  li vedi fermi al semaforo di fianco all’autobus,  ingrigiti e appesantiti alla guida di macchinoni enormi. Sul sedile di dietro la Repubblica di Platone e la mano verso la caverna di qualche studentessa che gli siede accanto. Oppure vanno a piedi, perché hanno la fortuna di abitare vicino al posto di lavoro. Sulla Nomentana salgono più che altro impiegati dei ministeri. Gli impiegati dei ministeri sono tra gli ultimi a svegliarsi nella rigorosa gerarchia del risveglio. Il monnezzaro Amo’ si sveglia alle quattro. Prima di lui si svegliano i barboni che a Villa Spada dormono sotto la tettoia del centro smistamento della ferrovia. Poco prima sono andate a letto le mignotte della Salaria che si sveglieranno a mattina inoltrata. Anche le signore del centro si svegliano a mattina inoltrata, diverse ore dopo la filippina che ha preparato la colazione e che comunque ha dormito almeno tre ore in più del Monnezzaro di Fidene. Gli impiegati si svegliano verso le sette e alle nove gli uffici cominciano a prendere vita. Dopo un paio d’ore arrivano i capi sezione, poi i capi divisioni. I capi e i Ministri invece si fanno vedere a giorni alterni, poco prima del pranzo, ma per una buona mezz’ora. Un’oretta dopo gli uffici, anche le prime vetrine si aprono sulle strare come occhi ancora assonnati, e i bottegai cominciano a lavorare. Ma non quelli che hanno il banco al mercato del Tufello, quelli si svegliano come il Monnezzaro Amo’, anche se forse hanno più soldi. Verso le dieci la città è viva, ma di una vita ferma, quasi immobile, deludente. Almeno fino a i raggi dorati del tramonto. 

Riepilogo

domenica, giugno 19, 2011

Facciamo un riepilogo. 

Dove sono finiti i rigattieri? Che fine hanno fatto? In ordine sparso, io direi che sono successe cose bizzarre dall'inizio di questi tempi. Tendenzialmente, in un modo o nell'altro (e chissà perché), molti continuano a studiare. Quando mi iscrissi all'università c'era un mio amico che si iscrisse a fisica perché voleva fare filosofia. Ora uno dei rigattieri che ha studiato filosofia studia più o meno fisica, matematica e 'ste robe qua, e progetta di cambiare la storia della scienza al di fuori dell'accademia. Le cose, a volte.

Poi c'è chi da un capo all'altro d'Italia sta finendo di laurearsi, perché più giovane degli altri o perché nel frattempo s'è messo a fare altri lavori (altri figli, e così via).

Poi ci sono quelli che si sono re-iscritti all'università, per prendere un'altra laurea, che non si sa mai.

Alcuni sono sbarcati in Francia e sono tornati, altri in maniera più originale sono finiti in Belgio (sì, quel paese senza governo da un sacco di tempo che non si sa mai cosa c'è e invece tutto sommato... vabbè ok, c'è un motivo per cui non si sa mai cosa c'è), e vanno e vengono. 

Alcuni fanno sottotitoli.

Alcuni sono andati e poi rimasti prima in Francia, poi in Inghilterra, ma secondo me poi si pentono e torneranno. 

Altri vengono da un'isola, meno bella di altre, e hanno deciso di cambiare lavoro e darsi a cose remunerative (sono il coté realista-conservatore dei rigattieri). 

Ci sono quelli che dell'università non ne vogliono sapere più nulla, e stanno sempre a mandare paper per fare i convegni all'estero. Ci sono quelli che (e sono i meglio?) transitano dalla filosofia alla letteratura, alle arti, mantenendo il piede in due staffe.

Ci sono gli scrittori, savasandir, e alcuni non pubblicano perché il mondo non è ancora pronto. 

Alcuni vengono pagati (e sono pochi), altri non vengono pagati (e sono molti), e questa però è storia nota di un'intera generazione. Ma ci sono quelli, e fanno veramente ride, che dovrebbero essere pagati perché hanno vinto un concorso (ne conosco almeno tre), e non vengono pagati né chiamati perché anche i concorsi per questa generazione funzionano in maniera bizzarra.

E poi c'è Dora. 

Dora: che fine hai fatto?

lunedì, giugno 13, 2011

" You talkin' to me?"


YES
YES
YES
YES

NRC XIII - Il ragazzo con la bicicletta

martedì, giugno 07, 2011


Il cinema dei fratelli Dardenne è un cinema poco noto al grande pubblico, forse perché bollato dall'etichetta: autoriale (e dunque rigido, noioso, e così via). Ma contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la misura e il rigore sono capaci di trasmettere grande passione, come succede nel loro ultimo lungometraggio, presentato in concorso all'ultimo festival di Cannes e vincitore del Gran Premio della Giuria. Il ragazzo con la bicicletta è la storia di un dodicenne indomito, scontroso, irrequieto, e della sua dolorosa condizione di abbandono familiare. I registi costruiscono il loro film come un'indagine tutta orizzontale sui movimenti del corpo e dell'anima di questo ragazzino, che rimanda alle figure infantili per nulla pacificate di un certo cinema francese (dall'Antoine Doinel dei Quattrocento colpi alla banda irrequieta di Zéro de conduite). Ma la forza del film risiede nella capacità di toccare vette altissime di pathos a partire da una storia del tutto lineare e da una direzione volta all'essenzialità. A partire da uno sfondo "sociale", i Dardenne riescono a trascinare il basso della concretezza più assoluta verso l'alto delle emozioni che coinvolgono lo spettatore, mettendo in atto un'operazione di astrazione materica. Contro la spiritualità del film di Malick si pone allora la materialità di quello dei Dardenne; alla trascendenza di uno sguardo sulle origini della vita si oppone l'immanenza di una vita singolare, quella di Cyril, corpo in fuga dalla famiglia, dall'infanzia, dalla violenza.  I piani sequenza delle corse in bicicletta, gli scatti improvvisi di Cyril e la recitazione impeccabile di Cecile de France meritavano, ancora una volta, la palma d'oro.

Signori si nasce

mercoledì, giugno 01, 2011


"Poi veramente la gente ti viene a sparare..Ti faccio vedere io che fine fai... Vengo io a casa tua... I soldi a me velocemente... I 13mila euro se no stasera sono a  casa tua…Vai dove ca..o... Devi andare ..dagli usurai…Vatti ad ammazzare ma portami i 13mila euro".


Beppe Signori, al telefono con Marco Paoloni, portiere del Benevento, minaccia conseguenze dopo il fallito tentativo di manipolare Inter-Lecce. 
In quell'occasione, l'ex bomber puntò 150mila euro, che andarono in fumo.
Come i nostri sogni sul calcio.