Rinnovo della patente (inferenza esistenziale)

martedì, settembre 28, 2010

Se il duemilaventi, che oggi sembra abissalmente lontano - almeno quanto il duemiladieci sembrava irraggiungibile, nel duemila - arriva nello stesso tempo che ha impiegato ad arrivare il duemiladieci, allora l'ho in culo.

NRC IV - Inception

lunedì, settembre 27, 2010













Non mi va di usare il termine capolavoro. È un termine semplificante, riduttivo in un certo senso.
Sì, perché come Memento ha segnato l’ultimo scorcio del secolo scorso, così oggi Inception può a buon diritto aprire la strada per i prossimi anni del cinema (americano).
L’intento di Nolan, sia nel primo sia in questo film, è infatti quello di costruire una trama avvincente, appassionante, credibile per mettere in scena un’immensa, struggente autodafé.
Dopo l’eccelso tirocinio compiuto sul personaggio di Batman, Nolan riesce a costruire un kolossal dell’immaginario, un action movie dell’inconscio. E se si accetta di correre insieme a lui, beh, diventa impossibile non restare senza fiato da metà film in avanti. Una sceneggiatura diabolica e impeccabile, effetti speciali che mescolano vecchi trucchi al digitale e infine una storia semplicemente bellissima.
Senza svelare nulla (è impossibile, servirebbero dieci pagine…), vorrei soltanto suggerire di non lasciarvi influenzare dalle solite recensioni che parlano di Freud, Matrix e vari luoghi comuni.
Il protagonista di Inception è un cavaliere oscuro che diventa boia di se stesso, custode delle sue colpe, dannato al ricordo perpetuo.
Come accadeva in Memento, anche qui il vero nucleo di senso è fornito dal rimpianto, dal dolore per qualcosa che si è perduto. La medesima pena che doveva scontare Guy Pierce, smemorato seriale. Proprio come diceva lui, alla fine, rivolto alla sua amata. Non riesco a ricordarmi di dimenticarti.

(per non venir meno alla consegna, lascio solo queste poche righe. Su giornivariabili verrà presto un testo più argomentato)

NRC III - Il volo

sabato, settembre 25, 2010


Un Wim Wenders così esplicitamente politico mancava all’appello. E pour cause, verrebbe da dire. Uno esce dalla pseudo-sala in cui proiettano il mediometraggio Il volo (difficilissimo da vedere e certamente da non perdere) e non sa bene che pensare, per questioni che hanno a che fare con la deontologia se non con l’etica, riassumibili nella seguente domanda: che fiducia (si può, si deve) avere nella finzione? Il regista sembra averne poca, purtroppo, nonostante la forza che assumono sotto la sua direzione le immagini di un pallone, di un’enorme muraglia e di un piccolo deltaplano che si libra sul cielo di Badolato, in Calabria. Il sud di questo film è un altro modello di sviluppo, una lotta contro i fantasmi ambientata in un ring fantastorico tra vecchia emigrazione e nuova immigrazione. Ma il nuovo vecchio scontro è ancora una volta quello tra finzione e documentario, avvenire del 3D e origini del cinema: si può raccontare la realtà, la verità, attraverso una storia? È un peccato che Wenders ci creda poco, perché la sua presenza ossessiva sullo schermo eccede il limite del didascalico. Eppure la soluzione c’era, ed era lì, tra una voce fuori campo e l’altra: la voce delle immagini che inventano una storia nella storia, rendendola universale. È nel volto di Ben Gazzara, nelle gambe di Peppino. E se è vero che “solo con le idee si può sconfiggere la barbarie”, come afferma il sindaco di Riace, Domenico Lucano, Wenders poteva forse rifletterci di più (e farsi inquadrare di meno).

L’infanzia terribile di Maciste I

martedì, settembre 21, 2010




Maestra: «Scendi giù da quella finestra! Non ci si arrampica, è pericoloso!»
Maciste (coll’indice alzato al cielo): «Ci si arrampica solo sugli alberi!»
Maestra: «??!!»

[Maciste illustra così la sua dottrina sul balconing responsabile]

NRC II - Bal

sabato, settembre 18, 2010


Provo a fare una recensione, non che ne sia capace, è la prima volta, il lettore saprà perdonarci. Ieri al cinema Off Broadway, sulla Zülpicherstr., dopo aver mangiato la Wiener Schnitzel più cara del mondo in un posto che si chiama "Bei Oma Kleinmann", ho visto  Bal - Honig, vincitore a Berlino nel 2010. 



Prevengo subito le vostre più basse critiche: non ci hai capito niente, era in tedesco. Bene vi sbagliate, questi non parlavano. Su due ore di film, i dialoghi potevano condensarsi in dieci minuti. Già la prima scena annuncia allo spettatore attento che sarà una lunga sfida: diversi minuti su degli alberi a camera fissa con il protagonista che si muove con una lentezza esasperante davanti alla camera, cercando un alveare sugli alberi. Bal e il suo mulo bianco dominano questa scena fissa, che ci introduce la storia di questo raccoglitore mi miele, della sua famiglia, in particolare del figlio Yosuf, e della loro vita tra le montagne.

Padre e figlio hanno un rapporto molto particolare, una complicità che, nei rari dialoghi, viene sottolineata dal loro parlarsi sussurrando. La prima scena è un sogno del bambino, il padre trova un albero, ci si arrampica e ad un certo punto un ramo cede. Il padre cade e rimane sospeso per qualche secondo. Inutile dire che si tratta della trama già spiattellata. Si vede un film lento che si sa già straziante, si perde la speranza in qualsiasi altro finale. Scena di apertura e chiusura, in mezzo il racconto. Ma la lentezza ammazza anche lo strazio, e quindi ti dici, vabbe' concentriamoci sugli aspetti tecnici: bella fotografia, buoni gli accostamenti e il metalinguaggio per la trama psicologica.

In fondo questo è un film che vuole dare il tempo di riflettere, prorpio durante la proiezione. E allora ti accorgi che c’è una connessione tra l’incapacità del bambino di leggere ad alta voce a scuola e il dialoghi che con il padre sono sempre sottovoce. Ti accorgi che c’è una connessione tra la sua voglia disperata di saper leggere e di conquistare una delle medagliette del maestro e la crisi epilettica che ad un certo momento prende al padre quando solo soli nel bosto. Tutto si svolge nella tranquillità più assoluta, neanche un sussulto. C’è spazio anche per la gelosia che a un certo punto Yosuf prova per il cugino. Ci sono piccoli peccati di Yosuf, pentimenti e redenzioni quasi immediate. 

Motivo portante della storia è una frase che si ripete ben tre volte: “bevi il tuo latte Yosuf”. In bambino tra le altre cose, ha un blocco per il latte. La frase la dice la madre a Yosef, in tono ben diverso da quelli che usa il padre. In tono autoritario e comunque affettuoso. Autoritario e comprensivo. La madre è una donna forte che solo alla fine scoppia in lacrime, anche lei quasi già rassegnata alla fine del marito.  La prima volta, il latte lo bene il padre, salvando così il figlio. La seconda volta, il padre era già via verso il non ritorno, pur di non berlo il bambino si stappa dei capelli e ce li mette dentro. Alla fine il bambino beve il latte, quando capisce che il padre non sarebbe tornato. Ma la madre non dice niente, come a sottolineare la gravità della cosa. Qui la frase non viene detta, ma tu te l’aspetti e ala fine è più rumorosa che nelle altre occasioni. Lui va a scuola e legge ad alta voce, non bene, ma riceve l’ultima medaglia. Poi torna a casa, vede la madre piangere contornata di donne e uomini e scappa. Si addormenta sotto un albero e il film finisce con una scena fissa omologa a quella iniziale. 

Un bel film, dove, come dicevo, la lentezza uccide ogni cosa. E anche la simbologia - latte, sogni costanti del bambino, sottovoce e sussurri - un po’ troppo prevedibile. 

NRC I - Somewhere

mercoledì, settembre 08, 2010


C'era una volta un mondo fatato. Il mondo fatato è il mondo di persone che voi neanche lontanamente fareste una vita come la loro, e che però pure loro hanno i loro problemi, e neanche troppo lontani dai vostri. D'accordo, voi lavate maniacalmente il cesso di casa vostra mentre quelli chiamano due strafighe che ballano la lapdance in camera loro, o si fanno due giretti con la ferrari. Ma non è molto diverso, se ci pensate. D'altro canto, è normale che l'immaginario di chi è figlio di F. F. Coppola sia un po' diverso da quello di tutti gli altri. E infatti non è quello il punto - perché la potenza del cinema sta anche nella possibilità di trascendere l'ordinario verso l'assurdità più ostentata e, perché no, irrispettosa. Il punto è di capire fino a che punto quest'operazione sia capace di affascinare e coinvolgere lo spettatore, anche mettendolo a distanza. Era la forza di Lost in translation, film che ho odiato al cinema e a cui non ho più smesso di pensare nel corso degli anni. Questo Somewhere è invece un film (rigoroso, a tratti divertente, un buon esempio dello stile sofiacoppola, ma tutto sommato) freddo, ed è questo il suo limite più grosso. Freddo nonostante la ricerca di una freddezza che possa riscaldare, insomma. 

p.s.: sì, questo post vorrebbe essere l'inizio della Nuova Rubrica Cinematografica, testi brevi sul cinema contemporaneo. Vediamo.

NRL V - Infinite Jest

domenica, settembre 05, 2010

 
Infinite jest


Io volevo dire anche qualcosa sulla querelle di cui ai post precedenti di questo blog, quindi alla fine sto partorendo una cosa strana e sbilenca ma tant'è.


Sgomberiamo subito il campo da equivoci: jest non ha niente a che fare con il gesto. Significa scherzo, burla, presa in giro, battuta, spiritosaggine. Ma questo non è un libro comico.


Premesse:
Materiali utili alla lettura: un blocco per gli appunti; tanta memoria; una certa quantità di tempo libero.

Consigli:
Le note vanno lette tutte. È consigliabile leggere la nota 304 la prima volta che compare l'indicazione “v. nota 304”. Ma potete anche aspettare che compaia il richiamo apposito.
Fate un breve profilo per ogni personaggio e nome che viene fuori, oppure almeno segnatevi a che pagina viene citato, oppure in quali pagine se ne racconta la vita.
Vi serviranno almeno 5 segnalibri: uno fisso sulla cronologia, uno fisso sulla filmografia di James O. Incandenza (nota 24), uno fisso sulle note e uno alla pagina in cui siete. Il quinto per tornare indietro.

Contenziosi: se riuscite a leggere il libro in meno di 30 giorni, potete restituirlo a Einaudi e, in effetti, dovreste farlo, vista la qualità. Ma DFW non ne ha colpa, sia chiaro. Né ne ha colpa il tris Nesi-Villoresi-Giua che l'ha tradotto [applauso]. Ora, Einaudi ha acquistato (?) il libro da Fandango. Ok, non funziona proprio così. È da un pezzo che non si capisce chi è che in Italia pubblica DFW. Prima Fandango, poi minimum fax, poi arriva Einaudi e fa un casino della madonna.
Permettetemi di fare polemica e rinvangare il recente passato: Einaudi ci lucra. E non me ne frega niente del fatto che “no, sì appartiene alla Mondadori ma no, alla fine è autonoma”. Niente. Einaudi lucra di brutto. Perché non puoi acquistare il libro da Fandango e pubblicarlo tale e quale. Anzi peggio. Il refuso, signora mia, il refuso. Io non ce l'ho col refuso, poverino, e neppure con Fandango. Però, caro Editore

a) se me lo ripubblichi – e mi fai anche 9 ristampe in 5 anni – sarebbe carino tu lo dessi a uno straccio di correttore di bozze. Un errore – mediamente – ogni 3 pagine è troppo. Un numero di nota sbagliato (e quale!) è insopportabile. Anzi è proprio da stronzi.
b) lo so, il lavoro costa. Anche il libro: 27 euro. Tesoro, Luigi, sono milletrecento pagine. Che fa, magari me lo rileghi? Te lo pago anche 29, tranquillo. Ma cazzo, incollato no... è da stronzi.
c) lo so, la carta costa. Ma Luigi, tesoro, sono milletrecento pagine. Francamente, risparmiare 120 pagine stampando le note in corpo 10 e le sotto-note in corpo 8 – costringendomi all'uso della lente d'ingrandimento – è al limite dell'accordo sottobanco con i medici oculisti e gli ottici. Insomma, se me ne stampavi millequattrocento e mi correggevi gli errori, te lo pagavo anche 30 euro. Fatto 27... faccio anche 30. Tanto, mica lo fotocopio. E poi ci fai una barca di soldi lo stesso. Infatti Fandango lo vendeva per meno di 25 euro. Che stronzata.


Il succo è che Fandango ha fatto una grande operazione culturale perché, signore e signori, siamo di fronte a una delle Cose Più Belle Mai Scritte. La partita di Eschaton a pagina trecento e rotti è, senza alcun ragionevole dubbio, La Cosa Più Bella Mai Scritta.

In breve:
L'azione si svolge prevalentemente nell'Anno del Pannolone per Adulti Depend, o APAD. Gran parte dei fatti narrati hanno luogo nel novembre APAD, anche se scene rilevanti si svolgono tra il 30 aprile e il 1 maggio APAD.
In sintesi, il libro narra di come gli AFR, un gruppo di spietati assassini su sedia a rotelle (v. nota 304) del Québec attenta all'Organizzazione delle Nazioni dell'America del Nord (Onan) cercando di far circolare un film clandestino che stermini gli statunitensi. Il film è, ovviamente, Infinite Jest.
Il finale del libro è scritto a pagina 20, ma non si nota ed è, invero, assai discreto. La cosa può essere intuita, in effetti, perché i fatti delle prime pagine si svolgono nell'Anno di Glad [no, non l'anno dei felici, proprio l'anno del deodorante per interni Glad, quello di un soffio di Glad], che corre dopo l'APAD.


Giusto per fare capire al Capo quanto è importante questo libro, diciamo che è in grado di sciogliere il suo personalissimo nodo gordiano sull'ironia, dal momento che restituisce a questa figura retorica tutto quello che la risata le ha scippato. [Capo, qui mi linki il post sulla tua lettera a Repubblica, grazie]. È altresì delittuoso che tutti 'sti qui che si riempiono la bocca di cinema e filosofia non l'abbiano letto.
Fondamentalmente il testo si caratterizza per una serie di cose scritte troppo divinamente e cortesemente giustapposte, con intuizioni che esibiscono genialità in vario grado (dalla banale ovvietà alla compulsione fino all'estasi) e modi scribendi rather impressive, da tuttotondi psicologici dostoevskiani a scimmie tondelliane (che non sai se è stato il Nesi o Wallace a metterci Tondelli) a giocatori di rugby che si innamorano di agenti segreti en travesti manco fosse il primo Austin Powers (per una lettura queer di Austin Powers si veda Judith Halberstam, In a Queer Time and Place, cap. 6, pp. 125-151, New York University Press, New York 2005). Il tutto mentre DFW fa un'articolata disamina delle dipendenze da sostanze e visioni e martella il lettore con l'idea ossessiva e sua personale e complicata fissazione che il cliché e l'ovvio esprimono, mediante lavorìo da tortura della goccia, una grande e terribile verità (cfr. Questa è l'acqua, del Nostro, 2005) assediata da cose che vi dovrebbero fare sbellicare dalle risate ma che in realtà siccome DFW dimostra che questa sua idea in fondo può essere vera allora non vi fanno ridere proprio per niente perché annichiliti da cotanta grandiosità e terribilità.


Inoltre:
Dopo questo libro, anche le forme più alte di fantascienza sono da considerarsi completamente superate sotto ogni punto di vista (fra l'altro la parte sulle dipendenza sembra la riscrittura di Un oscuro scrutare, mentre le “cartucce” al posto dei DVD o del Blu-ray risultano decisamente steampunk).
Da qualche parte esiste una linea che collega direttamente il minimalismo di Carver con il massimalismo radicale e metodico di DFW. Ma questo è solo un sospetto e la mia tariffa come investigatore prevede una diaria di 100 euro.
Oltre ad aiutare e incrementare le competenze linguistiche, il testo è una grande palestra di logica e memoria. E vi fa sudare meno sangue e sentire meno scemi che un Calasso.
Prende sia di pancia che di testa. Anche quando avete i canali empatici occlusi come me. E li stura anche un po', vi dirò.

 cc si-culo

(quest'ultima immagine è un'aggiunta di molto posteriore - dicembre 2011 -, ed è Fritz Lang dal set di Metropolis). 

Proposte di alternativa: l’ego scriptor e la terza via

mercoledì, settembre 01, 2010




Chiedere a uno scrittore di entrare a far parte di un movimento organico è chiedere troppo.
Non esiste in natura. Lo scrittore si palesa infatti nel mondo come esemplare patologico di egocentrismo: declinato nella modalità “diva” se ha successo e nella modalità “recluso” se introverso e di scarsa presa sul pubblico. Rarissimi sono i casi di romanzieri e poeti che riescono a condurre un’esistenza normale.
La querelle agostana sul caso Mancuso-Mondadori ne è stata la dimostrazione ulteriore.
Gli interventi di livello sono stati pochissimi e comunque quasi tutti segnati dall’adagio autoassolutorio: “io faccio così perché...”, “io?! e perché dovrei andarmene proprio io?...”, “e io che c’entro?”, e così via.
Come se fosse impossibile, per uno scrittore italiano, trovare valide argomentazioni che superino il proprio contratto editoriale o quello del suo vicino (più alto o in basso in classifica).
Una simile povertà contenutistica del dibattito ha avuto anche altri effetti secondari:
-          una generale morigeratezza dei toni: quasi tutti (Giornale e Libero esclusi, savasans...) hanno infilato guanti di velluto; strano, per un Paese dove appena si può ci si accoltella fra contradaioli di opposte fazioni...
-         la perdita di vista dei dettagli: pochissimi interventi ben documentati, tutti hanno tirato dritto seguendo la vulgata di Repubblica, nessuno che ha messo in campo il vero tema (le proprietà delle case editrici: e sarebbero dunque venuti fuori i problemi di indipendenza di Rcs, la dittatura distributiva di Messaggerie e Feltrinelli, etc.).
-         la mancanza di un discorso strutturale del settore editoriale: e qui, scusate, ma va dato atto a questo luogo di cazzeggio metafisico di essere intervenuto su un “vuoto” nazionale... mica cotica...
Insomma, gli scrittori, per piacere, lasciamoli fare da soli. Non si può pretendere troppo da loro.

Dopo questa panoramica (o questo sfogo, come volete), vorrei prendermi un po’ di spazio per lanciare un tema serio. Che va in una direzione diversa rispetto alla proposta di alternativa lanciata qualche giorno fa. Che non coinvolge gli autori e nemmeno i grandi gruppi.
Ma si rivolge ai piccoli. Ai nuovi e vecchi piccoli editori, a quelle realtà che spesso riescono a pagare a stento i diritti ai propri autori.
In un mercato ristretto, dove ci sono pochi attori che monopolizzano prezzi e fatturati, le realtà piccole o minuscole vanno incontro a due strade, di solito: 1) sopravvivere all’interno di una nicchia dignitosa, oppure 2) scomparire dentro un grande gruppo non appena diventano interessanti economicamente (o falliscono, purtroppo). Sì, perché la selezione naturale avviene, in economia, o per acquisizioni dall’alto o per fallimento dei competitors che non riescono più a stare sul mercato.
E se ci fosse una terza via?
Mettiamo, per ipotesi, che alcune piccole editrici di talento e dal catalogo affine decidano di unire le forze. Diventare più grandi per aggregazione spontanea. Si diluirebbero i costi e si sommerebbero copie e fatturati.
Pensateci: in Italia esistono circa 2600 case editrici, che si spartiscono una torta da 3,5 miliardi di euro (dati Aie 2009).
Un mercato piccolissimo, asfittico. Se considerate che Mondadori e Rcs insieme fanno 700 milioni l’anno... pensate che tutti gli altri si devono spartire il resto...
L’alternativa a un mercato oligopolistico potrebbe esistere. Basterebbe mettere il naso fuori dalle rispettive parrocchie e unire le forze. Soltanto dei piccoli editori “più grandi” (perdonatemi il bisticcio) potrebbero iniziare a scalfire le mura della fortezza: prezzi, distribuzione, catene librarie.
Dei piccoli in grado di contendersi gli autori migliori e iniziare a imporre nuove condizioni al mercato.