Chiedere a uno scrittore di entrare a far parte di un movimento organico è chiedere troppo.
Non esiste in natura. Lo scrittore si palesa infatti nel mondo come esemplare patologico di egocentrismo: declinato nella modalità “diva” se ha successo e nella modalità “recluso” se introverso e di scarsa presa sul pubblico. Rarissimi sono i casi di romanzieri e poeti che riescono a condurre un’esistenza normale.
La querelle agostana sul caso Mancuso-Mondadori ne è stata la dimostrazione ulteriore.
Gli interventi di livello sono stati pochissimi e comunque quasi tutti segnati dall’adagio autoassolutorio: “io faccio così perché...”, “io?! e perché dovrei andarmene proprio io?...”, “e io che c’entro?”, e così via.
Come se fosse impossibile, per uno scrittore italiano, trovare valide argomentazioni che superino il proprio contratto editoriale o quello del suo vicino (più alto o in basso in classifica).
Una simile povertà contenutistica del dibattito ha avuto anche altri effetti secondari:
- una generale morigeratezza dei toni: quasi tutti (Giornale e Libero esclusi, savasans...) hanno infilato guanti di velluto; strano, per un Paese dove appena si può ci si accoltella fra contradaioli di opposte fazioni...
- la perdita di vista dei dettagli: pochissimi interventi ben documentati, tutti hanno tirato dritto seguendo la vulgata di Repubblica, nessuno che ha messo in campo il vero tema (le proprietà delle case editrici: e sarebbero dunque venuti fuori i problemi di indipendenza di Rcs, la dittatura distributiva di Messaggerie e Feltrinelli, etc.).
- la mancanza di un discorso strutturale del settore editoriale: e qui, scusate, ma va dato atto a questo luogo di cazzeggio metafisico di essere intervenuto su un “vuoto” nazionale... mica cotica...
Insomma, gli scrittori, per piacere, lasciamoli fare da soli. Non si può pretendere troppo da loro.
Dopo questa panoramica (o questo sfogo, come volete), vorrei prendermi un po’ di spazio per lanciare un tema serio. Che va in una direzione diversa rispetto alla proposta di alternativa lanciata qualche giorno fa. Che non coinvolge gli autori e nemmeno i grandi gruppi.
Ma si rivolge ai piccoli. Ai nuovi e vecchi piccoli editori, a quelle realtà che spesso riescono a pagare a stento i diritti ai propri autori.
In un mercato ristretto, dove ci sono pochi attori che monopolizzano prezzi e fatturati, le realtà piccole o minuscole vanno incontro a due strade, di solito: 1) sopravvivere all’interno di una nicchia dignitosa, oppure 2) scomparire dentro un grande gruppo non appena diventano interessanti economicamente (o falliscono, purtroppo). Sì, perché la selezione naturale avviene, in economia, o per acquisizioni dall’alto o per fallimento dei competitors che non riescono più a stare sul mercato.
E se ci fosse una terza via?
Mettiamo, per ipotesi, che alcune piccole editrici di talento e dal catalogo affine decidano di unire le forze. Diventare più grandi per aggregazione spontanea. Si diluirebbero i costi e si sommerebbero copie e fatturati.
Pensateci: in Italia esistono circa 2600 case editrici, che si spartiscono una torta da 3,5 miliardi di euro (dati Aie 2009).
Un mercato piccolissimo, asfittico. Se considerate che Mondadori e Rcs insieme fanno 700 milioni l’anno... pensate che tutti gli altri si devono spartire il resto...
L’alternativa a un mercato oligopolistico potrebbe esistere. Basterebbe mettere il naso fuori dalle rispettive parrocchie e unire le forze. Soltanto dei piccoli editori “più grandi” (perdonatemi il bisticcio) potrebbero iniziare a scalfire le mura della fortezza: prezzi, distribuzione, catene librarie.
Dei piccoli in grado di contendersi gli autori migliori e iniziare a imporre nuove condizioni al mercato.