posso dire la mia

mercoledì, marzo 21, 2012




«La parola - e questa è ovviamente solo una mia opinione - non deve rispondere solo all'ossessione di comunicare (la comunicazione sta diventando il feticcio della nostra epoca). La parola dovrebbe servire ad aggiungere qualcosa, a migliorare il già detto. Alla comunicazione bastano gli slogan. Alla cultura serve il ragionamento. Non per caso la conclusione del mio corsivo era questa: "se usassi Twitter, direi che Twitter mi fa schifo. Fortunatamente non twitto". Traduzione per i parecchi che non hanno capito, e difatti hanno scritto "a Serra fa schifo Twitter": ci sono cose, per esempio il mio giudizio su Twitter, che non possono essere dette su Twitter. Perché ci sono cose che sono complesse e addirittura complicate, e dunque irriducibili alle pochissime parole che Twitter concede».

Michele Serra, sabato 17 marzo 2012




 
«Che la comunicazione breve e precipitosa contenga un maggiore rischio di superficialità, come scrive Serra, è indubbio. L’errore che ha fatto lui è di trasformare questo rischio in una certezza, e legarlo peculiarmente a Twitter. Come è indubbio, in generale, che la comprensione della realtà e del mondo richieda che si sia disponibili alla complessità, ad analisi articolate, a conclusioni contraddittorie, a poche certezze, e a rapporti di causa ed effetto sempre diversi. Ovvero a niente che sia considerato efficace dai mezzi di comunicazione odierni né peraltro atraente dalla maggior parte dei loro utenti».

Luca Sofri, domenica 18 marzo 2012





«posso dire la mia. Internet mi ha rotto il cazzo».

Greg, lunedì 19 marzo 2012


NRL VII - Io non ricordo

mercoledì, marzo 14, 2012



Epitaffio per la narrativa “ggiovane” americana


Pompato, recensito, osannato e chi più ne ha più ne metta, Stefan Merril Block sembra il nuovo figliol prodigo della narrativa americana. E io, come un pollo, ci sono cascato. Leggendo il romanzo di Block, mi sono invece imbattuto in un ottimo caso di marketing dell’industria editoriale americana. È curioso, perché ultimamente gli americani, quelli “ggiovani”, che piacciono un sacco, si sono organizzati per bene. Invece di farsi concorrenza fra loro, si spartiscono le tematiche: tu prendi gli omosessuali, io la famiglia, lui il sesso… e Block? L’Alzheimer, o le malattie neurodegenerative in senso più ampio.
Intendiamoci, il romanzo “Io non ricordo” si legge agevolmente, è piacevole, ti commuove quando deve commuoverti, è un tantino noiosetto per farti capire che sei davanti a un intellettuale, mica a un produttore seriale di thriller: insomma c’è tutto. Il problema, però, è proprio questo: ogni pagina, ogni trovata, sembra già “telefonata”; cade a puntino, insomma (troppo). Chissà, magari è uno dei tanti “ggiovani” usciti da una scuola di scrittura creativa (e vallo a trovare, adesso, uno che sappia scrivere in maniera sporca, sghemba, non levigata… li fanno fuori al test di ammissione...).
Ma il vero tarlo che mi sono portato dietro per tutta la lettura del libro è un altro.
È un dettaglio della trama. Una di quelle cose che ti saltano agli occhi e che, se te ne accorgi, ti turbano poi fino alla fine (sennò amen, leggi fino in fondo tranquillo come un pupo).
Si tratta di questo. Al protagonista capita un dramma: sua madre si scopre malata di Alzheimer a esordio precoce. Una malattia terribile e rapidissima. Lei non riesce più a esprimersi, ovvio. Il nostro eroe vorrebbe trovare l’origine familiare della malattia, ricostruire la storia genetica. Ma, poverino, non fa l’unica cosa sensata, che verrebbe in mente a ognuno di noi: chiedere lumi al padre (il quale, manco a dirlo, sta muto a massacrarsi di gin e documentari alla tv). No, il nostro affezionatissimo decide di fare tutto da solo.
Evitando, per esempio, di farsi una semplice domanda: “com’è che si chiama mia madre, di cognome”?
Maffigurati. Lo scimunito si procura – illegalmente – l’elenco di tutti i malati del Texas (che è una strada più breve, ammetterete) e li va a trovare uno alla volta (tipo Safran Foer, ricordate?).
E tu sei lì, in metropolitana, che parli da solo con il libro: “Il cognome… devi cercare il cognome…”. Poi il tizio, non contento, espone i suoi drammi alla più figa della classe: e tu dici “ma non farle ‘ste paranoie, cacciale la lingua in bocca e chiedi a tuo padre il cogn…”.
Poi, lo sciammannato, si riconcilia con il padre alcoolizzato, a p. 270. E tu, a questo punto, non ce la fai più. Il cretino si mette a sproloquiare del destino ineluttabile, dell’atroce mistero che aleggia nella loro casa…“Ma chiedigli il cognome, testa di cazzo!! Il cognome-da-nubile-di-tua-madre!!!”.

Haggard!! Si chiamava Haggard!!…Ma era così difficile, santiddio?!

primarie di palermo

lunedì, marzo 05, 2012


Quando andavo al liceo facevo politica, e dunque conosco molti di quelli che oggi sono giovani dirigenti di partito, a livello locale e non, di destra e di sinistra. Ogni tanto a qualche manifestazione spuntavano quattro gatti con delle bandiere strane e un atteggiamento - si è detto - da testimoni di geova. Ce n'erano di due tipi: quelli che brandivano bandiere con un pugno gattato, che si facevano chiamare Socialismo rivoluzionario (e se gli davi il numero di telefono eri spacciato, ché non te li toglievi più dalle palle); e poi degli altri con delle bandiere arancioni (futuro colore di residui comunisti vestiti da uomini di governo), ed erano quelli del Partito umanista. Non si capiva che cazzo fosse 'sto partito umanista, ma avevano un sacco di bandiere. Ferrandelli, per dire, era del partito umanista. 

Poi nel 2006 c'era il treno speciale RitaExpress, che portò a votare in Sicilia giovani da tutta Italia per sostenere RRRita alle regionali. Fu la migliore affermazione del centro-sinistra da anni, ma non si vinse neanche allora, a causa di un appoggio troppo tiepido da pezzi consistenti del pd siciliano (Cracolici, tra questi). Cracolici, fautore dell'appoggio a Raffaele Lombardo alla Regione, oggi sostiene Ferrandelli. Ma Ferrandelli lo conobbi allora anche per un'altra ragione: c'era un patto tacito su quel treno, ed era di non mettere in giro volantini di singoli candidati, ché bisognava tendere all'unione e non alla divisione visto che ognuno aveva i suoi candidati preferiti. Oh: 'sti volantini di Ferrandelli spuntavano sempre, non si capisce come, e dice che era uno di noi. Ferrandelli è sempre uno di voi.

Tanto è uno di voi che quando hanno sgomberato nel 2010 il Laboratorio Zeta di Palermo, uno dei centri sociali più intelligenti e interessanti del panorama nazionale, Ferrandelli ad esempio era lì sul tetto a sostenere le ragioni dell'occupazione. Il che è un ottimo segno, non c'è che dire. C'è tuttavia questo problema che un candidato a sindaco non è solo un nome o una persona, ma una coalizione e la gente con cui decide di stare. E il passo falso di Ferrandelli in questo percorso che ha portato alle primarie (e che gli ha consentito di vincere, evidentemente) è stato quello - mefistofelico - di scegliersi compagni di strada che un po' fanno arrizzare le carni. Per dirne una, diciamo.

Ciò detto: sarà il candidato del centrosinistra. E' giovane, piacione, un po' pazzo. Ha fatto delle battaglie giuste in consiglio comunale, ha dei metodi di fare politica (dalla retorica alla prassi) piuttosto discutibili. Sarà abbastanza forte da non farsi irregimentare dalla gentaglia che gli sta dietro?  Sarà abbastanza rappresentativo di una coalizione di sinistra che vuole un cambiamento dopo dieci anni di disastro di Cammarata? Non sapete quanto ce lo auguriamo, non sapete quanto temiamo che la cosa sia irrealizzabile. 

Gli ottimisti della volontà facciano pure un passo avanti.