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All'ombra del racconto I. La gerarchia del risveglio

domenica, giugno 26, 2011

Riprendiamo dal post di prima: “alcuni scrivono, ma non pubblicano perché il mondo non è pronto”. E aggiungiamo “alcuni non scrivono, ma pubblicano sul blog, perché del mondo se ne curano poco”. Inauguriamo con questo motto la pagina letteraria del nostro blog: All'ombra del racconto, d'ora in poi A'odr.  Solo alcune piccole regole: 

  • non importa chi sia l'autore e i commenti riguardano la critica del racconto 
  • i diritti, così come le responsabilità pensali, sono tutti del capo
  • i personaggi e i fatti non sono casuali, ma facciamo finta di si
  • qualsiasi trasposizione cinematografica deve avere l'autore o un suo prescelto come sceneggiatore e/o protagonista, marcellocofino come controfigura per le scene di sesso, e un posto per tutti quelli della combriccola, tranne quelli che hanno la fortuna di vivere in isole più belle di altre. 
  • il ricavato va in beneficenza all'associazione dottorandi anonimi.


La gerarchia del risveglio

A.  Cazzo, fai piano!, brontolò A. rompendo il silenzio imbarazzante e il buio della notte che come ogni mattina stava per svendere la periferia romana a un giorno desolante.

Poco male, tra meno di mezz’ora la signora del piano di sopra avrebbe cominciato a strisciare i mobili, come fa sempre quando alle quattro e mezza del mattino decide che la sua vita da quel giorno sarebbe cambiata. I colpi di tosse fanno pensare che abbia sempre una sigaretta in bocca. E anche la sua voce rauca, che rompe in pianto quando alle cinque già chiama la madre novantenne per raccontarle che ha sbagliato tutto. Il monnezzaro dell’appartamento accanto avrebbe tra poco acceso il televisore a tutto volume per commentare le solite notizie: «Se parla solo de ste ragazzine morte ammazzate, poerelle. E de ste mignotte e de sto depravato che ce fa er Bunga Bunga... Ma lo sai che ce fa bene! ‘nvedi io 'ndo sto e chi me so sposato... Amo’ un te la prenne che sto a scherza! Er caffè?». Verso le cinque, dalle fessure della porta di ingresso, assieme ai primi cenni di luce, sarebbero arrivate le consuete note, a volte galoppanti delle Bagatelle di Beethoven a volte malinconiche dei Notturni di Chopin, a volte meravigliose della prima sinfonia di Mahler. In questo angolo sperduto, abita un professore, che ogni mattina per essere a scuola alle otto deve alzarsi alle cinque. Poi comincia il suo vero calvario, viene crocifisso da un’orda di liceali verso mezzogiorno e poi sepolto nel traffico delle due. La resurrezione invece da queste parti non è contemplata. 

B. Hai ragione scusa, torna a dormire.
A. Che ore sono? come faccio a dormire con te che fai sto casino. Chiudi la porta, no!
B. Sono le quattro e qualcosa. Devo essere a Termini alle sei. Scusa, cerca di dormire.
A. Ecco, lo sapevo adesso comincerò a sognare le fotocopie. Che palle, non basta il lavoro... volevo dormire almeno fino alle otto, adesso mi riaddormenterò e sognerò le maledette fotocopiatrici assassine. 
Neanche il tempo di finire la frase e A. si era già riaddormentato, mentre una fotocopiatrice di ultima generazione gli rosicchiava il piede destro.

La periferia resiste ai tempi e alle mode. Non è una questione di lontananza dal Centro. Ci sono periferie a ridosso delle mura aureliane. E invece ci sono posti a ridosso del raccordo che tutto sono tranne che periferie. È una questione di volti e di sguardi, di tempi, di linguaggio, di confine, di passaggio, di ombre. Ma soprattutto di volti, quando uno si mette a scrutare i volti in periferia, comincia un viaggio rischioso. C’era un bigliettino una volta, attaccato a un albero, giù a Villa Spada:

Esiste ancora la periferia, dove l’odore del rosmarino armato di lanceolati rametti, sfida il fumo chiassoso della città. Dove i binari luccicanti al sole corrono spericolati tra gli arbusti. Dove si nascondono anime anonime, dimenticate dal destino. Dove i binari abbronzati di ruggine, invece, tra gli arbusti spinosi fuggono e si feriscono, lasciando strisce luccicanti di metallo vivo.

Esiste ancora la periferia, dove sul volto della gente sono stampate carte geografiche di tutte le passioni insieme.

Va bene, cinque meno un quarto, pensò B. In dieci minuti sono a Largo Labia. Faccio in tempo per la prima corsa del 90. Il 90 è un serpentone silenzioso. L’unico filobus della città. Se non fosse per le buche e le condizioni della strada sarebbe anche silenzioso. A quest’ora la città non è trafficata. Se riesco a sopravvivere alle chiacchiere delle vecchie nel 90, tra quaranta minuti sono a Termini, ce la dovrei fare. In questa città le persone hanno un disperato bisogno di parlare. Ho il sospetto che alcune di queste vecchie che sempre affollano gli autobus si alzi apposta, per trovare qualcuno con cui parlare. Sarà la noia che non le fa dormire. Noia e solitudine ammazzano il sonno. Ma la disabitudine ammazza il dialogo e così, appena gli dai un minimo di confidenza cominciano un piglio così polemico che ti fanno pentire di aver aperto bocca e preferiresti avere una conversazione con il Monnezzarò Amo’.

La città si veste a strati. Mano a mano che ci si avvicina al centro, la gente si cambia di vestito. In periferia si usano le tute da ginnastica. Dopo Viale Adriatico, si arriva in una zona di finta periferia, la gente indossa pantaloni e camicia, scarpe di cuoio, qualcuno un vestito. Poi ci sono vestiti e vestiti. Anche a Largo Labia qualche impiegato del centro indossa un vestito. Ma, tolta anche la qualità inferiore rispetto ai vestiti del centro, lui lo porta come una tuta. Dalla Nomentana cominciano i signori in vestito che vanno a lavorare nelle banche del centro. Oppure i professori dell’Università. A seconda delle facoltà, più o meno eleganti. Ma in quel caso è la spocchia che li contraddistingue. Questi però li vedi poco sull’autobus. Vanno a lavoro in macchina, e  li vedi fermi al semaforo di fianco all’autobus,  ingrigiti e appesantiti alla guida di macchinoni enormi. Sul sedile di dietro la Repubblica di Platone e la mano verso la caverna di qualche studentessa che gli siede accanto. Oppure vanno a piedi, perché hanno la fortuna di abitare vicino al posto di lavoro. Sulla Nomentana salgono più che altro impiegati dei ministeri. Gli impiegati dei ministeri sono tra gli ultimi a svegliarsi nella rigorosa gerarchia del risveglio. Il monnezzaro Amo’ si sveglia alle quattro. Prima di lui si svegliano i barboni che a Villa Spada dormono sotto la tettoia del centro smistamento della ferrovia. Poco prima sono andate a letto le mignotte della Salaria che si sveglieranno a mattina inoltrata. Anche le signore del centro si svegliano a mattina inoltrata, diverse ore dopo la filippina che ha preparato la colazione e che comunque ha dormito almeno tre ore in più del Monnezzaro di Fidene. Gli impiegati si svegliano verso le sette e alle nove gli uffici cominciano a prendere vita. Dopo un paio d’ore arrivano i capi sezione, poi i capi divisioni. I capi e i Ministri invece si fanno vedere a giorni alterni, poco prima del pranzo, ma per una buona mezz’ora. Un’oretta dopo gli uffici, anche le prime vetrine si aprono sulle strare come occhi ancora assonnati, e i bottegai cominciano a lavorare. Ma non quelli che hanno il banco al mercato del Tufello, quelli si svegliano come il Monnezzaro Amo’, anche se forse hanno più soldi. Verso le dieci la città è viva, ma di una vita ferma, quasi immobile, deludente. Almeno fino a i raggi dorati del tramonto. 

banchetto divino

martedì, dicembre 28, 2010

 
Ebbe tutto inizio al solito banchetto del Re Fosco, mentre il Lambrusco, spumante, faceva il gaglioppo con il Dolcetto d’Alba che gli stava a fianco. Non che loro c’entrassero direttamente qualcosa, ma proprio tra l’uno e l’altro fece la sua comparsa un acino d’oro recante la scritta “al più bello”. Fu Moscato, sempre sul chi va là, a notarlo per primo e allungò le mani con fare grecanico.
“Moscato! –cannoneggiò autorevole Müller-Thurgau- Che stai cercando di nascondere? Cos’è che ti brilla fra le dita?”
“Nulla, nulla, cosa vuoi che sia…”
“Ah, non cercare di fare il sangiovesino con me”
“Già, di che si tratta?” aggiunse Lambrusco
“Sento puzza di tannino…”, chiosò stizzita Malvasia Rosé
Moscato capì subito di non essere in una botte di ferro e mostrò ai commensali il prezioso acino.
“Chardonnay! E a chi altri credete che possa essere destinato se non a me?” intervenne il Conte di Cabernet-Sauvignon, con la sua erre moscia e la nobile cadenza francese. Ma l’interruppe la risatina fruttata di Malvasia Rosé: “Ecco il solito zibibbo tronfio. È chiaro che quell’acino è destinato a me”. Stavolta fu Montepulciano d’Abruzzo, proprio accanto a lei, a prorompere in una risata corposa: “A te? Ah, buona questa! Tu vali poco più di una vernaccia!” “Vernaccia a me? Offendere così una signora? Sei un mosto insensibile!”
“Insolia, come osi?!”, disse quello per tutta risposta. E lì, fu la bagarre. Ah, se non lo date a me saranno lagrime e chianti per tutti! Trebbiano! Vecchio nebbiolo passito! Viscido vermentino! Barolo al metanol o! Madre dell’aceto! Californiano d’importazione!
“Basta!”. Rimasti in disparte, in tre, all’unisono, troncarono seccamente la lite. Brunello di Montalcino, Morellino di Scansano e Nero d’Avola, scuri in volto più del solito, lanciarono ai convitati un’occhiata severa. “Per tutti i vitigni! Che scene sono mai queste? Indegne del vostro lignaggio invero. Non è così che si risolvono le dispute. Faremo scegliere ad un arbitro al di sopra delle parti, un giudice imparziale”
“Non starai mica pensando ad un sommellier, vero?”
"Merlot, non riesci mai a tenere il becco chiuso. A decidere sarà il consumatore”
 
l'originale qui, particolarmente appropriato in giornate di banchetti natalizi. grazie si-culo per averci permesso di riproporlo in questa sede.
l'immagine di apertura risponde a criteri prettamente e(ste)ti(li)ci e non commerciali.

Sciascia, un ricordo di Camilleri

giovedì, agosto 20, 2009

" Una volta, leggendo il carteggio Pirandello-Martoglio, mi venne d’osservare che in Sicilia l’esercizio dell’amicizia è un’arte assai difficile da praticare. Infatti, tanto più profonda e sincera è l’amicizia siciliana e tanto è più fragile, basta un nonnulla a romperla. Dopo anni d’intesa, di collaborazione, di aiuto reciproco, Pirandello rimprovera a Martoglio una parola. Una sola parola, non una frase, che non andava detta. E da quel momento non si scriveranno più, non si frequenteranno più.

In Sicilia non c’è bisogno di chiedere un favore a un amico, è a questo che spetta il compito d’intuire ciò che l’altro vuole e farlo sollecitamente senza dirglielo. Tra loro non possono esistere zone d’ombra, segreti, ci si è detto tutto come fanno gli innamorati. E tra i due amici, più che la parola, il mezzo di comunicazione più usato è sempre il linguaggio muto, fatto di sguardi e di gesti appena avvertibili.

In questo senso, posso tranquillamente affermare di non essere mai stato amico di Leonardo Sciascia. Tranne che per una cosa: il nostro linguaggio muto funzionò benissimo fin dal primo incontro. I suoi amici veri, quelli della cerchia più stretta, lo chiamavano «Nanà», io mi rivolgevo a lui con «Leonà». E Sciascia mi chiamò sempre per cognome, «Cammillè», con due emme, alla contadina.

Il primo contatto che ebbi con lui fu epistolare. Lavoravo con Angelo Guglielmi al servizio sperimentazione Rai, Angelo era fresco di successo per aver varato Candid camera ed ebbe l’idea di produrre uno sceneggiato su un tema allora ancora inedito, la mafia. Sciascia aveva appena pubblicato Il giorno della civetta e perciò gli scrissi se voleva lavorare per noi. Gli proponevo il soggetto e la sceneggiatura sul caso Notarbartolo, un delitto degli inizi del ’900, che per primo mise in luce il rapporto mafia-banche-politica. Mi rispose declinando l’invito, mi spiegò che la documentazione a lui indispensabile, e cioè la lettura dei vari atti processuali, gli avrebbe portato via troppo tempo.

Qualche mese dopo il Teatro Stabile di Catania mi propose la regia del Giorno della civetta, al cui adattamento stava lavorando Giancarlo Sbragia. Accettai con entusiasmo e cominciai a seguire il lavoro di trasposizione dal romanzo alla scena. Un pomeriggio Sbragia mi fece trovare a casa sua Sciascia che non avevo mai visto prima. L’adattamento era quasi terminato e Sbragia glielo lesse. Sciascia ascoltava in silenzio e ogni tanto mugolava o bofonchiava. All’epoca parlava pochissimo, si esprimeva più che altro con monosillabi. Sbragia, interdetto, a ogni bofonchio s’interrompeva, prima guardava lui e poi me.

Io gli sorridevo rassicurante. Perché, guardando a mia volta Sciascia e lui guardando me, avevo capito che l’adattamento lo soddisfaceva. In quell’occasione gli domandai cosa ne avrebbero pensato i mafiosi del nostro spettacolo. E lui: «Saranno seduti in prima fila ad applaudire, la mafia è vanitosa». Poi, con mio grande rammarico, dovetti rinunziare a quella regia. La portò a termine un altro.

Nella primavera del 1977 tornai per una decina di giorni al mio paese in Sicilia. Un giorno, Sciascia mi telefonò invitandomi ad andarlo a trovare a Racalmuto. Lui abitava fuori del paese, in aperta campagna, una località detta «la Noce». Mi accompagnò in macchina un amico. \ Ci venne ad aprire una signora che allora non conoscevo, ci domandò cosa volessimo. Mi presentai, risposi che ero stato invitato da Leonardo. Gentilissima, la signora, che era la moglie, mi disse che suo marito era andato in paese, ma che sarebbe tornato al massimo entro una mezz’oretta. Se intanto volevamo accomodarci…

Decidemmo di raggiungerlo in paese, che era poco distante. All’inizio del corso che attraversa Racalmuto, parcheggiammo e scendemmo. Erano le 11 di una mattina di maggio, splendida, luminosa, calda. Lungo i marciapiedi molti racalmutesi avevano sistemato delle sedie e stavano in silenzio a godersi il sole, ad «allucertolarsi».

Mi avvicinai a due quarantenni che parlavano fitto ridacchiando: «Scusino, hanno visto passare Sciascia?».

Alzarono la testa, mi guardarono stupiti. «Come ha detto?» domandò uno dei due.
«Ho chiesto se avevano visto passare Sciascia».
«Non lo conosciamo» mi rispose quello, troncando.
Fatti alcuni passi, nuova fermata davanti a un gruppo di quattro anziani. «Scusino, conoscono Sciascia?».
«Cu?» mi domandò stupito uno.
«Leonardo Sciascia, lo scrittore».
«Iu nun lo canuscio. E voi lo conoscite a un certu Sciascia?» chiese rivolto agli altri tre.
Quelli risposero quasi in coro: «Nonsi, non lo canuscemo».
Giungemmo tra i tavolini all’aperto di un caffè. Due o tre erano occupati. Ci sedemmo un pochino scoraggiati. Arrivò un cameriere.
«Due caffè. Senta, per caso lei conosce Sciascia?» chiesi.
Mi guardò allarmato. «No. Chi è? Perché?».
«Vuole domandare per favore se qualcuno dei signori qui seduti lo conosce e se l’ha visto passare?».
Il cameriere andò verso i tavolini occupati, parlottò a lungo, tornò allargando le braccia. «Non lo conosce nessuno».
La situazione però era cambiata di colpo. Ora tutti ci stavano puntando gli occhi addosso. Era come se avessi fatto domandare loro se avessero visto transitare Oscar Wilde.
Bevemmo il caffè, ci alzammo.
«Torniamo alla Noce?» propose il mio amico dopo un po’.
«Facciamo un ultimo tentativo».
Passava un ragazzino, poteva avere un tredici anni, l’aria molto sveglia. «Senti, tu lo conosci a Sciascia?».
«Sissi» rispose pronto.
«Sai dove possiamo trovarlo?».
«’N farmacia è. Chiddra» fece, indicandocela.
Ci precipitammo nella farmacia. Entrammo, c’era una cliente, aspettammo il nostro turno.
«Desiderano?».
«Cercavamo Sciascia».
Il farmacista non rispose subito. Stette un pezzo a squadrarci da capo a piedi. Infine dovette rendersi conto che non eravamo né killer né giornalisti importuni.
«È andato alla posta».
Ci spiegò dove si trovava l’ufficio postale. Arrivammo col fiatone. Era deserto. C’era un’impiegata dietro uno sportello.
«Cerchiamo Sciascia».
«È uscito ora ora».
Guardammo nei paraggi, non lo trovammo.
«Torniamo alla Noce» dissi, definitivamente sconfitto.
E in quel momento mi sentii chiamare. «Cammillè!».
Era Leonardo che arrancava col bastone verso di noi. Ci abbracciammo. «Andiamo a prendere un caffè» propose.
C’era un bar a due passi. Mi mossi, mi fermò. «No, quello no».
Mi prese sottobraccio e mi fece rifare, a lento, chiacchierando, tutto il corso.
Quando passò davanti ai tavoli all’aperto del caffè, quelli che avevano negato cinque minuti prima di conoscerlo si alzarono e lo salutarono con rispetto. Lo conoscevano benissimo. E lo stesso fecero i quattro anziani e i due quarantenni.
Allora capii che tutto il paese aveva voluto proteggere la privacy di Sciascia da due sconosciuti. E che Sciascia mi stava facendo ripercorrere il corso tenendomi sottobraccio per far sapere a tutti, in questo modo, che io ero un suo amico. Che io non gli portavo disturbo.
Andammo assieme alla Noce. Al momento di accomiatarci, mi invitò a tornare da lui l’indomani, voleva farmi vedere uno scritto pirandelliano che aveva prestato a qualcuno.
«Vengo qui o in paese?».
«Vieni in paese».

Il giorno appresso il mio amico non poté accompagnarmi, presi un taxi. Lo feci fermare all’inizio del corso. I due quarantenni erano ancora lì, sulle loro sedie. Forse avevano passato la notte all’aperto.
Appena mi videro, balzarono in piedi: «’U profissuri ora ora passò! È annato di là!».
E stavolta, guidato dai racalmutesi, ci misi poco a incontrare Sciascia. "


Andrea Camilleri - La Stampa, 28/06/2009

Prima storia del cazzo

sabato, giugno 04, 2005

C'era una volta un gatto. Tutti pensavano che fosse femmina e le volevano un gran bene. Era affettuosa, dolce, anche se a volte un po' graffiante. Insomma, una vera e propria, confermata ed esperta baldracca. Questo batuffolo di pelo ed ormoni si aggirava furtivo nei corridoi desolati della nostra casa. Fu così, che un giorno, il nostro amico A***** la sorprese a rubare un'acciughina. "Pezzo di troia che non sei altro!!" disse con coraggio il nostro eroe. La guardò dritto negli occhi e qualcosa di magico accadde in un solo istante: "Puah! Puah!" disse il caro amico, e in un baleno il gatto si alzò su due zampe, tirò fuori una lunga scimitarra e lo colpì ripetutamente fra moccio e bava. Il dondolio del movimento persuase il nostro amico che felice tornò a casa.
Morale della storia: non fidatevi dell'onestà del vostro gatto, quella baldracca nasconde un segreto......!!!