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le quattro cause di un film

sabato, settembre 26, 2015


Come ai tempi in cui il sapere non era tale se non era condiviso, e come sempre un po' per gioco un po' sul serio, a partire da un esempio trovato nella Nuova storia della filosofia occidentale di Kenny e immaginando di provare a ipotizzare strategie autarchiche da sperimentare in classe, ho chiesto a un po' di rigattieri allargati di provare a identificare, aristotelicamente, le quattro cause di un film. Anche e soprattutto per vedere se quelle che avevo identificato io avessero senso oppure no. Per me, pensandoci di getto, era abbastanza chiaro che causa materiale del film fossero i fotogrammi (in quanto pezzi di pellicola, o quanto vi è di analogo nei file), e che la causa finale fosse la realizzazione stessa del film. Quanto alla causa formale pensavo si potesse identificare nell'idea del film, e dunque nella sceneggiatura (nel suo senso più ampio, comprendendo cioè l'idea del regista in fase di realizzazione vera e propria), mentre la causa efficiente era forse, semplicemente, l'operatore con la macchina da presa. Un elenco scritto di getto e come tale incontestabile, sotto pena di tristezza perenne.

Cosa ne pensavano gli altri? E quanti altri avrei potuto coinvolgere e non avevo chiamato? Ma mi basavo sul gesto immediato, sulla noia di un pomeriggio alla biblioteca regionale di Palermo, in fondo forse su una strana forma di istante propizio. I rigattieri sono stati al gioco, come sempre. Le loro risposte dicono forse qualcosa anche di ognuno di loro. 

Piggì:
causa materiale: la pellicola
causa efficiente: il regista
causa formale: il montaggio delle immagini
causa finale: il godimento dello spettatore

Lanz:
causa materiale: la pellicola o il file
causa efficiente: il proiettore
causa formale: immagine movimento
causa finale: il messaggio

Nichi:
causa materiale: la pellicola, lo schermo
causa efficiente: tutta la troupe
causa formale: idea del regista, degli attori, sceneggiatura
causa finale: tante, tipo fare un bel film, avere successo, vincere un premio, ecc.

Ciccì:
causa materiale: boh (la pellicola? la macchina da presa? la luce? qual è la materia di un film?) 
causa efficiente: il regista
causa formale: il profitto, se sei a Hollywood; l'idea del cinema, se sei a Cannes
causa finale: il pubblico, se sei a Hollywood; l'arte, se sei a Cannes

Alealo:
causa materiale: le immagini
causa efficiente: il regista etc
causa formale: il film
causa finale: lo spettatore

[non contenta, Alealo inventa una quinta causa, strumentale: la pellicola (e tutti gli strumenti tecnici), e  ancora insoddisfatta aggiunge che l'esempio del film esibisce l'insufficienza delle quattro cause aristoteliche]

Tex:
causa materiale: il supporto analogico o digitale su cui le immagini sono registrate
causa efficiente: l'ostinatezza del regista
causa formale: le immagini in movimento
causa finale: la comunicazione di significati attraverso immagini

[insoddisfatta, Tex commenta: «dipende da quale capitolo della metafisica vuoi utilizzare per attribuire una teoria del genere ad Aristotele», come se volessi attribuire qualcosa a qualcuno, o ancora peggio muovermi tra i capitoli della metafisica manco fossi Aladino…]

Coferi:
causa materiale: pellicola o supporto digitale
causa efficiente: tutta la crew, dal soggetto alla prostproduzione, passando per registi, attori, truccatori, montatori, grafici, musici, ecceccecc.
causa formale: non esiste, perché l'opera è un'essenza singolare - al limite la potremmo pensare come il rapporto tra l'opera stessa e il canone filmico, da cui però il film si definisce per eccentricità (se parliamo di film da cinema, perché se parliamo di video amatoriali, videoclip, video istallazioni il discorso cambia). 
causa finale: siamo contro, ma direi triplicemente articolata, in appagamento estetico dello spettatore, appagamento narcisistico dell'autore, ripartizione inedita del reale. 

Mi rivolgevo infine a un vero esperto, che come tale non accettava di stare al gioco in maniera sbrigativa, e si impegnava veramente nel compito che gli sbolognavo come una patata bollente. Lo chiameremo, per tutelare la sua rispettabilità, "'o professore":

In termini aristotelici, la tua domanda steampunk non ha una risposta univoca, e questa è forse la ragione della varietà di soluzioni che, a quanto mi dici, hai potuto raccogliere. L'esplicazione delle quattro cause in ambito poetico è una materia complessa (e anche relativamente poco studiata dalla critica). 
Così, per un verso, secondo l'unico esempio di cui com'è noto disponiamo, la tragedia è una forma di imitazione di «un'azione nobile e compiuta benché grande», la sua causa efficiente è l'arte del tragediografo che la compone, la causa materiale, ovvero ciò di cui è costituita, sono le sue «parti», che concorrono nel suscitare le passioni di «pietà e terrore», la cui catarsi è il fine della tragedia (Poet. I 6).
Per altro verso, però, Aristotele precisa che «le azioni e il racconto sono il fine» (1450a 22), ma queste stesse, nel loro prendere forma nella rappresentazione tragica, possono anche essere considerate come la causa efficiente della catarsi dello spettatore, e in questo senso si dice che della tragedia «principio e in certo modo anima è il racconto» (1450a 38). Le cose si complicano poi ulteriormente se si considera la genesi dell'arte tragica, cioè la “nascita della tragedia” (Poet. I 4), perché allora, per esempio, la causa efficiente è la tendenza innata dell'uomo all'imitazione, che assume poi nella storia diverse forme poetiche; o ancora se l'indagine riguarda la concreta messa in scena di un'opera tragica in particolare, perché allora il novero delle cause materiali ed efficienti si amplia (recitazione, macchine sceniche ecc.).

Su questa falsariga, lavorando di analogia, si può tentare una risposta.
La causa formale di un film sarebbe la forma specifica di cinema a cui appartiene, cioè il suo “genere cinematografico”. Partendo dalla definizione di “cinema” che i cineasti considerano in qualche modo normativa, nel bene o nel male, cioè più o meno «arte dello spettacolo basata sull'immagine in movimento» (e che è presupposta per opposizione anche da operazioni come Blue di Jarman o La Jetée di Marker ecc.), si tratterebbe cioè di specificare se è un film western o una commedia sentimentale, o ancora un film “sui generis”, e poi all'interno (o all'incrocio) di questi generi qual è la forma di un certo film in particolare. 
La causa efficiente sarebbe l'arte cinematografica del cineasta, la sua poetica cinematografica, ma qui dobbiamo intendere in senso “architettonico”, come direbbe Aristotele – cioè nel senso in cui diciamo che un film è “di Bergman” o “dei fratelli Cohen”, perché contano anche le poetiche del direttore della fotografia, del montatore ecc. e l'arte degli interpreti.
La causa materiale corrisponderebbe alle diverse "parti" del film, cioè le voci dei titoli di testa e di coda, da regia, sceneggiatura, direzione della fotografia, montaggio ecc. a colonna sonora, casting, produzione esecutiva, costumi ecc. compresi ovviamente catering, trasporti ecc.; ma anche, su un altro piano, le macchine da presa e le luci, il ciak, la sedia pieghevole in tela bianca del regista; e da un altro punto di vista ancora si possono considerare causa materiale le inquadrature, le sequenze e le scene; e poi naturalmente la recitazione e gli attori stessi.
Come fa Aristotele con la tragedia, tutti questi elementi (l'elenco è aperto) possono essere poi considerati a loro volta secondo altre prospettive. Così ad esempio la fotografia del film è il fine in vista di cui ci sono il direttore della fotografia, i riflettori, il diaframma della macchina da presa ecc. O la suspense è “principio e in certo modo anima" di un thriller.
Sulla causa finale ultima di un film azzarderei un'ipotesi. Sarà vero che ars gratia artis, come ci ricorda la MGM, ma meno genericamente e forse più postaristotelicamente si potrebbe dire che un film mira a trasformare un immaginario condiviso nella dinamica di una forma di vita.

il natale dei rigattieri

giovedì, dicembre 25, 2014

Ho fatto gli auguri di Natale a qualche rigattiere. L'ho fatto al modo dei rigattieri, e penso che anche le loro risposte dicano qualcosa di ciascuno di loro. Avevo deciso preventivamente che avrei inventato la risposta di almeno uno di loro, per giocare sull'effetto comico del post: non ce n'è stato bisogno.

SMS DI AUGURI DEL CAPO: 

Pesante


SMS DI RISPOSTA

Ciccì: E inzomma…

Lanz: Pesantissimo

Ferari: Vero.

Bezzina: Vero.

Mheo: Parecchio

Happy: Lo so. Ma Natale è Natale. Sò pesi che dobbiamo portare. Augurerrimi.

Maurinho: Eh già… sono raffreddato.

Genni: Cosa?


p.s.: non posso non riportare questo omaggio che la dice lunga (non solo) sulla mia militanza cinefila, e di cui ringrazio moltissimo l'omaggiatore 

"Ho trovato oggi un VHS con gli inizi di vari film. Penso fosse la tua azione di correzione culturale per i miei canonici 5 minuti di ritardo al cinema. Una testimonianza degli esordi. Buon Natale!
(il vhs non è "A spasso con Daisy")


Fare di via rigattieri un museo internazionale

lunedì, novembre 24, 2014

Periodicamente ritorna. Ora però che ci siamo fatti una posizione, che lavoriamo, che abbiamo messo da parte dei risparmi, che FraLanz ha persino figliato (il che meriterebbe un post a parte), possiamo finalmente fare l'investimento di cui parliamo da anni. Comprare via rigattieri e creare il primo museo  internazionale dello studente lagnuso. Dobbiamo adeguarci: è finito il tempo dell'impegno. Se qualcuno pensava che Via Rigattieri potesse essere una nuova Via Panisperna, ebbene le nostre esistenze sono lì a provare che noi rappresentiamo l'avanguardia della nuova Italia che avanza, quella basata non già sull'ingegno, men che mai sull'impegno, diciamocelo pure: sul bisogno. Siamo la nuova Italia basata sul bisogno di non fare un cazzo (inspiegabilmente non sancito dalla costituzione). 

Lascia perdere che uno s'arrabatti per trovare du lire, la questione è filosofica: dovremmo smetterla con questo finto ritegno che coincide di fatto con un appiattimento sui valori (piccoli piccoli) del secolo scorso. Noi siam di quella razza che ancora s'ha da inventare, dovremmo esserne orgogliosi. Invece, quando questa diventerà (com'è evidente) maggioritaria, saremo lì a recriminare, ma non potremo che rimproverare la nostra ignavia. Or bene: vogliamo forse lasciare al degrado questa situazione? 

Dico io: dov'è finita la lavatrice? Io l'avevo lasciata lì. Esattamente da qui ho assistito – e registrato – all'annuncio della prima gravidanza rigattierica. Vogliamo che quel rubinetto continui a pendere nel vuoto (non che il pavimento non abbia già ampiamente dimostrato la sua tenuta stagna, attenzione) o vogliamo fornirgli una vasca entro la quale non disperdere il suo flusso vitale? 


E il mio armadio? Quest'immagine non rende giustizia al senso di precarietà insito in quell'oggetto d'altri tempi, la cui particolare inclinazione faceva sì che non si chiudesse mai, permettendo quel sano ricambio di cui ogni panno riposto in ambiente accuratamente umido avrebbe bisogno. 


Potrei continuare a lungo, se non dovessi preparare la lezione su Hegel. Ma ci sono gli studenti che aspettano. (Anche questa la dice lunga: gli studenti aspettano me che invece di preparare la lezione su Hegel sto qui a scrivere sul museo internazionale dello studente lagnuso). E certo questo mi fa pensare a quando le mie rinomate lezioni si svolgevano tra queste mura: come non pensare che questa, che è passata alla storia come la seconda abitazione lanzesca, fu teatro dei miei primi videosaggi in cui introducevo alla fenomenologia un giovane logico pentito? I caffè filosofici e quant'altro erano ben di là da venire: e qui si sperimentava già. E dov'è finita allora la libreria con i preziosi volumi del nostro?


Signori, qui si gioca con la storia. Che è storia non soltanto della città di Pisa, è storia d'Italia. Dietro l'apparente anonimato di questa piantina (già stravolta nel concetto: un nuovo bagno riducendo il corridoio e la mia stanza? Ma dove diavolo pensate di fare i pranzi di natale, scusate?) si cela una delle vicende più ingloriose di questo paese. Da lì sono passati navigatori e santi (come altro definireste gennaro?), poeti e prostitute, eroi (pensate a betti, scopritore delle nuove asie) e pensatori di fama interregionale.


Ora io penso che sia un'occasione da non perdere. Pensateci: in due mesi abbiamo raccolto 40.000 euri per un treno che portava da nord a sud per sostenere una candidata alle elezioni regionali. Quanto ci staremmo a fare una colletta un po' più ampia per realizzare un grande sogno? Ma voglio rivolgermi anche direttamente ai politici che oggi amministrano la città di Pisa. Pensate davvero che questo non sia un patrimonio da preservare, quando poi vi vantate pubblicamente dei film di Roan Johnson? Signora Giunta di Pisa, si metta una mano sul cuore e ci rifletta un attimo. Sono almeno 15 anni che gioca con l'edificio dirimpetto, quello bruttino pieno di mattoni che continua a tenere chiuso. Perché non mette fine al giochino, lo vende come è chiaro che voglia fare da 'na vita, e investe in questa grande operazione culturale?


Signora, è a lei che mi rivolgo. Qui sotto, in quest'angolo, una pisciatina 'un s'è mai negata a nessuno. E pensi a quanti secchi d'acqua avremmo potuto lanciare! E invece mai: sempre secondo uno spirito d'accoglienza di cui lei, Signora, dovrebbe farsi vanto. Lei come la signora Fosca, gran signora quella sì, che anche lei stoicamente resiste al degrado civile e morale di questo paese sanza far motto, o al limite gridando un po', ma solo per non far sentire l'abbandono. Un abbandono, Signora mia, che davvero corrisponderebbe al peggior non voler sentire del peggiore dei sordi.


avviso

mercoledì, gennaio 01, 2014


punk

sabato, agosto 24, 2013

ci segnalano via mail

Se non ora quando?

martedì, febbraio 12, 2013


"[...] Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice".

Greg, è giunto il tuo momento, sei pronto?

qui si apre la nuova rubrica di fantapolitica ecclesiastica di via rigattieri

Il catalogo è questo

sabato, dicembre 17, 2011

PRIMI:

lasagne vegetariane
pasta col ragù
borda (tino)

SECONDI

focaccia pugliese con salsine
due torte salate
spincione
patate col forno

TERZI

una torta
un'altra torta
dolcetti piccoli, cioccolatosi e ipercalorici

QUARTI

una bottiglia di vino
un'altra bottiglia di vino

e il pane? (direbbero Straub e Huillet). e il resto? e le posate, i bicchieri, ecc?

Indecisi, inseritevi in questo elenco e manifestatevi! Il luogo dell'appuntamento è NW, via di Pratale 48a, dalle 13.

la lotta

martedì, dicembre 13, 2011


Dal mese in cui ho finito il dottorato (marzo 2011), si sono susseguiti una serie di tentativi per capire come riuscire a campare. Vorrei precisare che sono stati mesi in cui non c'è stato un attimo di pausa, tra le varie attività che uno fa o prova a fare (per lo più gratuite). Sul mio desktop la cartella "tentativi di lavoro" si va ingrossando. Nel frattempo, è abbastanza normale, colleziono rifiuti. Così, anche per controbilanciare l'idea che noi gggiovani non facciamo niente per uscire da questo stato di nulla che ci hanno costruito attorno, metto qui una serie di tentativi andati a male (ognuno potrà continuare coi suoi nei commenti). Secondo me ogni 10 poi almeno uno va bene, no?


- programmatore di cinema d'essai: eliminato

- responsabile attività culturali di un importante centro culturale: convocato a colloquio, eliminato.

- assegno di ricerca: fatto fuori, ripescato, complimentato, eliminato.

- borsa di studio per proposta di ricerca: non selezionato.

- docente di italiano come lingua straniera all'università: compatito, eliminato.

- "mediatore culturale" in un museo di arte contemporanea (stage gratuito): "ma lei perché è venuto?"

- supplenze a scuola: in graduatoria, nel 2099 forse mi danno una supplenza.

- cameriere in un ristorante: giornata di prova, 25 euro di stipendio per 8 ore di lavoro, scarafaggi, massacro. Mi elimino, perché rifiuto l'idea di condizioni inumane di lavoro. (Ma mi eliminano anche loro).

- collaborazioni con giornali e/o riviste: continuano, ma non portano soldi.

- collaborazioni con case editrici: varie risposte di vari editori, telefonate addirittura, tanti complimenti, ma sa c'è la crisi, fossimo stati 10 anni fa.

- altre cose varie che continuano: ma non portano soldi.

Al momento sono ancora in attesa di rifiuto per un contratto part-time di collaborazione con un'associazione. La lotta continua.

A proposito di mangiare

martedì, novembre 29, 2011


Visto che - come certo immaginate - le offerte di lavoro in seguito al post precedente stanno fioccando, e visto che ci avviciniamo a un periodo clou della nostra esistenza di rigattieri, coglierei l'occasione per pubblicare il bando pubblico per una selezione a settimo pranzo di natale di via rigattieri (il terzo o quarto in trasferta, et pour cause). Sarà un pranzo parco, per rispettare le nostre tasche (nonostante le numerose offerte di lavoro, come certo immaginate, dovute al post precedente), ma un pranzo di natale a tutti gli effetti. Il che significa che questa vale come convocazione vera e propria e ufficiale, a tutti i rigattieri sparsi per l'Italia e a tutti quelli che sono a Pisa e dintorni. Mi raccomando: in tempi di crisi dobbiamo farci forza e unire le pance (nonostante le offerte... post precedente). La data prescelta è dunque quella di SABATO 17 DICEMBRE DOMENICA 18 DICEMBRE, intorno alle ore 13.30 abbondanti, in un luogo che noi conosciamo ma che costituisce la sorpresa maxima, e che quindi per adesso non riveliamo. Come sempre, i commenti servono ad aderire e a definire il menu. Per quanto ci riguarda, visti i numerosi contratti di lavoro che hanno fatto seguito al post precedente, noi portiamo la tovaglia.

il capo va al lavoro un po' come M. Hulot va in vacanza

mercoledì, agosto 10, 2011

Mettiamola in questi termini.

Questi 28 euri guadagnati ieri sera, tra le 17 e le 24 (solo perché ero in prova), mi fanno sentire più felice, mi spingono a perseverare in questa diabolica strada del "lavoroquellovero"?

Ragioniamo insieme, collettivamente, generazionalmente, onestamente.

No.

Dalle 17 alle 24 sono 7 ore di lavoro. La paga prevista per la prova è di 25 euro (ma è anche la paga prevista per il contrattoquellovero, di sei giorni a settimana su sette, 150 euro a settimana uguale 600 euro al mese per 4 settimane di 24 giorni lavorativi su 28). Più le mance, che - mi assicurano - a volte sono anche di 12-13 euri! [A persona? No, complessivamente. Da dividere per: a) cucina (giusto); b) sala (giusto); c) bar (giusto); d) bicchieri rotti (perché - mi spiegano - i bicchieri si rompono, non i camerieri, non il barista, non la cucina: si rompono. E allora non paga il proprietario, paghiamo un po' tutti. Discutibile, tendente al meno giusto)]. La mancia di questa serata è di 3 euro (siamo intorno ai massimi storici, insomma).

E vabbé, uno dice in tempi di vacche magre certo che va bene, sono pur sempre 4 euro l'ora! Adesso uno si aspetterebbe quell'odioso ragionamento tanto caro ai lavoratori ("ma io ho studiato 10 anni per guadagnare 4 euro l'ora?"), ma noi invece lo lasciamo ad altri, intanto perché non ci pare un argomento inoppugnabile (metti che sei stato lento - e tutto sommato non è il mio caso -, oppure che hai scelto di studiare cazzate - ... -, insomma cazzi tuoi ciccio), e poi perché abbiamo argomenti ben più stringenti.

Poniamo che il locale - com'è il caso - sia di proprietà di ragazzi giovani. Anche simpatici, vi dirò. Passi il fatto che il cliente è veramente da uccidere, se ti fa scrivere 8 comande per una cena, e se non riesce a scegliere facendomi cambiare 4 volte i suoi cazzo di rigatoni all'amatriciana che poi diventano patatine fritte che poi diventa una macedonia che poi diventa un frullato. Passi. Ma il punto è: esiste un'etica del lavoratore? Quest'etica ha ancora qualcosa di prescrittivo, oppure no? E allora vogliamo veramente ragionare sui 4 euro, sugli anni di studio e sui lavori adatti o meno adatti, oppure dobbiamo cominciare a parlare delle decine di scarafaggini piccoli, dei ragni, degli scarafaggioni grossi che ho visto muoversi tra la cucina, la dispensa, il pacco di patatine (dentro), le sedie e così via?

[A questo post seguirà mail ai proprietari del locale con annesso caloroso invito a una disinfestazione. Non metto qui il nome del locale per ragioni minime di eleganza, e per non dare in pasto a internet un'onta cui, sono certo, porranno riparo. Nel frattempo, per maggiori info, scrivetemi in privato per sconsigliarvi questo pub-ristorante].

Aggiungere qualcosa sul collega cameriere proveniente dal terzo mondo che mi ha ripetuto nelle prime 8 frasi che i proprietari sono "bravibravibravi" e che lui lavora col cuore sarebbe politicamente scorretto, vero?

Insomma: a queste condizioni, tanto vale fare il professore universitario.

appunti per un manifesto rigattierico sul lavoro

giovedì, luglio 28, 2011

È da tempo che vorrei proporre un ragionamento collettivo e generazionale sul concetto di LAVORO. Su questo blog ne discutiamo spesso, da anni. Ora, siccome ieri è uscito il manifesto di TQ e mi sento un po' questo spirito generazionale da manifesto, vorrei sottoporvi alcune riflessioni che potrebbero diventare la base del nostro manifesto, il manifesto rigattierico sul lavoro (MRSL). Che ovviamente ha pretese universalizzanti e generaliste, sennò non sarebbe un manifesto. Due cose, essenzialmente, che andrebbero forse ripensate:

1) Dice che il lavoro, se è lavoro, è pagato, altrimenti non è lavoro. 

Ah beh. D'accordo siamo d'accordo tutti. Però uno si guarda attorno e vede che c'è veramente tanta gente (della nostra età, per lo più; ma la nostra età è molto ampia e si amplia sempre di più) che fa per molto tempo un'attività a tempo pieno che non viene pagata (o quasi: ma è sempre l' "o quasi" che ci fotte, n.b.): e non certamente per piacere. Non lo si vuole chiamare lavoro? Beh, allora bisognerà inventarsi un nome nuovo.
Il punto 2) è in qualche modo conseguenza di 1), gli è dunque strettamente connesso da un punto di vista logico, e tuttavia può darsi anche indipendetemente da 1) e soprattutto non è quasi mai esplicitato. Lo potremmo chiamare "Corollario della frustrazione lavorativa". 

2) Il lavoro è lavoro se è sofferenza. 

Con tutta la retorica annessa ("sto andando a lavorare"; "ho lavorato tutto il giorno"; e tutte le variazioni sul repertorio). In due parole, il corollario della frustrazione lavorativa implica che se uno impiega diverso tempo a fare un'attività e (mettiamo) si diverte, e magari viene pure pagato (poco o molto non importa - e molto è sempre un concetto relativo), "vabbé ma quello mica è lavoro".

Breve conclusione. C'è confusione. E la confusione linguistica è spesso sintomo di confusione concettuale. Ergo, per questa generazione (che non siamo TQ, chiamiamoci più modestamente rigattieri, o se volete VT), mi sembra prioritaria innanzitutto una riforma lessicale.


All'ombra del racconto I. La gerarchia del risveglio

domenica, giugno 26, 2011

Riprendiamo dal post di prima: “alcuni scrivono, ma non pubblicano perché il mondo non è pronto”. E aggiungiamo “alcuni non scrivono, ma pubblicano sul blog, perché del mondo se ne curano poco”. Inauguriamo con questo motto la pagina letteraria del nostro blog: All'ombra del racconto, d'ora in poi A'odr.  Solo alcune piccole regole: 

  • non importa chi sia l'autore e i commenti riguardano la critica del racconto 
  • i diritti, così come le responsabilità pensali, sono tutti del capo
  • i personaggi e i fatti non sono casuali, ma facciamo finta di si
  • qualsiasi trasposizione cinematografica deve avere l'autore o un suo prescelto come sceneggiatore e/o protagonista, marcellocofino come controfigura per le scene di sesso, e un posto per tutti quelli della combriccola, tranne quelli che hanno la fortuna di vivere in isole più belle di altre. 
  • il ricavato va in beneficenza all'associazione dottorandi anonimi.


La gerarchia del risveglio

A.  Cazzo, fai piano!, brontolò A. rompendo il silenzio imbarazzante e il buio della notte che come ogni mattina stava per svendere la periferia romana a un giorno desolante.

Poco male, tra meno di mezz’ora la signora del piano di sopra avrebbe cominciato a strisciare i mobili, come fa sempre quando alle quattro e mezza del mattino decide che la sua vita da quel giorno sarebbe cambiata. I colpi di tosse fanno pensare che abbia sempre una sigaretta in bocca. E anche la sua voce rauca, che rompe in pianto quando alle cinque già chiama la madre novantenne per raccontarle che ha sbagliato tutto. Il monnezzaro dell’appartamento accanto avrebbe tra poco acceso il televisore a tutto volume per commentare le solite notizie: «Se parla solo de ste ragazzine morte ammazzate, poerelle. E de ste mignotte e de sto depravato che ce fa er Bunga Bunga... Ma lo sai che ce fa bene! ‘nvedi io 'ndo sto e chi me so sposato... Amo’ un te la prenne che sto a scherza! Er caffè?». Verso le cinque, dalle fessure della porta di ingresso, assieme ai primi cenni di luce, sarebbero arrivate le consuete note, a volte galoppanti delle Bagatelle di Beethoven a volte malinconiche dei Notturni di Chopin, a volte meravigliose della prima sinfonia di Mahler. In questo angolo sperduto, abita un professore, che ogni mattina per essere a scuola alle otto deve alzarsi alle cinque. Poi comincia il suo vero calvario, viene crocifisso da un’orda di liceali verso mezzogiorno e poi sepolto nel traffico delle due. La resurrezione invece da queste parti non è contemplata. 

B. Hai ragione scusa, torna a dormire.
A. Che ore sono? come faccio a dormire con te che fai sto casino. Chiudi la porta, no!
B. Sono le quattro e qualcosa. Devo essere a Termini alle sei. Scusa, cerca di dormire.
A. Ecco, lo sapevo adesso comincerò a sognare le fotocopie. Che palle, non basta il lavoro... volevo dormire almeno fino alle otto, adesso mi riaddormenterò e sognerò le maledette fotocopiatrici assassine. 
Neanche il tempo di finire la frase e A. si era già riaddormentato, mentre una fotocopiatrice di ultima generazione gli rosicchiava il piede destro.

La periferia resiste ai tempi e alle mode. Non è una questione di lontananza dal Centro. Ci sono periferie a ridosso delle mura aureliane. E invece ci sono posti a ridosso del raccordo che tutto sono tranne che periferie. È una questione di volti e di sguardi, di tempi, di linguaggio, di confine, di passaggio, di ombre. Ma soprattutto di volti, quando uno si mette a scrutare i volti in periferia, comincia un viaggio rischioso. C’era un bigliettino una volta, attaccato a un albero, giù a Villa Spada:

Esiste ancora la periferia, dove l’odore del rosmarino armato di lanceolati rametti, sfida il fumo chiassoso della città. Dove i binari luccicanti al sole corrono spericolati tra gli arbusti. Dove si nascondono anime anonime, dimenticate dal destino. Dove i binari abbronzati di ruggine, invece, tra gli arbusti spinosi fuggono e si feriscono, lasciando strisce luccicanti di metallo vivo.

Esiste ancora la periferia, dove sul volto della gente sono stampate carte geografiche di tutte le passioni insieme.

Va bene, cinque meno un quarto, pensò B. In dieci minuti sono a Largo Labia. Faccio in tempo per la prima corsa del 90. Il 90 è un serpentone silenzioso. L’unico filobus della città. Se non fosse per le buche e le condizioni della strada sarebbe anche silenzioso. A quest’ora la città non è trafficata. Se riesco a sopravvivere alle chiacchiere delle vecchie nel 90, tra quaranta minuti sono a Termini, ce la dovrei fare. In questa città le persone hanno un disperato bisogno di parlare. Ho il sospetto che alcune di queste vecchie che sempre affollano gli autobus si alzi apposta, per trovare qualcuno con cui parlare. Sarà la noia che non le fa dormire. Noia e solitudine ammazzano il sonno. Ma la disabitudine ammazza il dialogo e così, appena gli dai un minimo di confidenza cominciano un piglio così polemico che ti fanno pentire di aver aperto bocca e preferiresti avere una conversazione con il Monnezzarò Amo’.

La città si veste a strati. Mano a mano che ci si avvicina al centro, la gente si cambia di vestito. In periferia si usano le tute da ginnastica. Dopo Viale Adriatico, si arriva in una zona di finta periferia, la gente indossa pantaloni e camicia, scarpe di cuoio, qualcuno un vestito. Poi ci sono vestiti e vestiti. Anche a Largo Labia qualche impiegato del centro indossa un vestito. Ma, tolta anche la qualità inferiore rispetto ai vestiti del centro, lui lo porta come una tuta. Dalla Nomentana cominciano i signori in vestito che vanno a lavorare nelle banche del centro. Oppure i professori dell’Università. A seconda delle facoltà, più o meno eleganti. Ma in quel caso è la spocchia che li contraddistingue. Questi però li vedi poco sull’autobus. Vanno a lavoro in macchina, e  li vedi fermi al semaforo di fianco all’autobus,  ingrigiti e appesantiti alla guida di macchinoni enormi. Sul sedile di dietro la Repubblica di Platone e la mano verso la caverna di qualche studentessa che gli siede accanto. Oppure vanno a piedi, perché hanno la fortuna di abitare vicino al posto di lavoro. Sulla Nomentana salgono più che altro impiegati dei ministeri. Gli impiegati dei ministeri sono tra gli ultimi a svegliarsi nella rigorosa gerarchia del risveglio. Il monnezzaro Amo’ si sveglia alle quattro. Prima di lui si svegliano i barboni che a Villa Spada dormono sotto la tettoia del centro smistamento della ferrovia. Poco prima sono andate a letto le mignotte della Salaria che si sveglieranno a mattina inoltrata. Anche le signore del centro si svegliano a mattina inoltrata, diverse ore dopo la filippina che ha preparato la colazione e che comunque ha dormito almeno tre ore in più del Monnezzaro di Fidene. Gli impiegati si svegliano verso le sette e alle nove gli uffici cominciano a prendere vita. Dopo un paio d’ore arrivano i capi sezione, poi i capi divisioni. I capi e i Ministri invece si fanno vedere a giorni alterni, poco prima del pranzo, ma per una buona mezz’ora. Un’oretta dopo gli uffici, anche le prime vetrine si aprono sulle strare come occhi ancora assonnati, e i bottegai cominciano a lavorare. Ma non quelli che hanno il banco al mercato del Tufello, quelli si svegliano come il Monnezzaro Amo’, anche se forse hanno più soldi. Verso le dieci la città è viva, ma di una vita ferma, quasi immobile, deludente. Almeno fino a i raggi dorati del tramonto. 

Riepilogo

domenica, giugno 19, 2011

Facciamo un riepilogo. 

Dove sono finiti i rigattieri? Che fine hanno fatto? In ordine sparso, io direi che sono successe cose bizzarre dall'inizio di questi tempi. Tendenzialmente, in un modo o nell'altro (e chissà perché), molti continuano a studiare. Quando mi iscrissi all'università c'era un mio amico che si iscrisse a fisica perché voleva fare filosofia. Ora uno dei rigattieri che ha studiato filosofia studia più o meno fisica, matematica e 'ste robe qua, e progetta di cambiare la storia della scienza al di fuori dell'accademia. Le cose, a volte.

Poi c'è chi da un capo all'altro d'Italia sta finendo di laurearsi, perché più giovane degli altri o perché nel frattempo s'è messo a fare altri lavori (altri figli, e così via).

Poi ci sono quelli che si sono re-iscritti all'università, per prendere un'altra laurea, che non si sa mai.

Alcuni sono sbarcati in Francia e sono tornati, altri in maniera più originale sono finiti in Belgio (sì, quel paese senza governo da un sacco di tempo che non si sa mai cosa c'è e invece tutto sommato... vabbè ok, c'è un motivo per cui non si sa mai cosa c'è), e vanno e vengono. 

Alcuni fanno sottotitoli.

Alcuni sono andati e poi rimasti prima in Francia, poi in Inghilterra, ma secondo me poi si pentono e torneranno. 

Altri vengono da un'isola, meno bella di altre, e hanno deciso di cambiare lavoro e darsi a cose remunerative (sono il coté realista-conservatore dei rigattieri). 

Ci sono quelli che dell'università non ne vogliono sapere più nulla, e stanno sempre a mandare paper per fare i convegni all'estero. Ci sono quelli che (e sono i meglio?) transitano dalla filosofia alla letteratura, alle arti, mantenendo il piede in due staffe.

Ci sono gli scrittori, savasandir, e alcuni non pubblicano perché il mondo non è ancora pronto. 

Alcuni vengono pagati (e sono pochi), altri non vengono pagati (e sono molti), e questa però è storia nota di un'intera generazione. Ma ci sono quelli, e fanno veramente ride, che dovrebbero essere pagati perché hanno vinto un concorso (ne conosco almeno tre), e non vengono pagati né chiamati perché anche i concorsi per questa generazione funzionano in maniera bizzarra.

E poi c'è Dora. 

Dora: che fine hai fatto?