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Liquidazione coatta

mercoledì, febbraio 08, 2012



il manifesto ha accettato la procedura del Ministero dello Sviluppo Economico che attiva la liquidazione coatta. Significa che bisognerà iniziare a vendere qualche pezzo della coperativa per evitare il fallimento. Si tratta quindi di una procedura preventiva, che dovrebbe tutelare i soci della cooperativa dal rischio di finire col culo per terra.
Nonostante l'espressione (liquidazione coatta) non è ancora "chiusura", ma poco ci manca.
Adesso partirà l'ennesima iniziativa di sostegno (numero a 50 euri?).

Perdere il manifesto sarebbe un evento enorme  per la nostra cultura. E lo dice uno che non condivide mezza parola della linea politica (e di quella economica), ma si è abbeverato a lungo dalle pagine di Alias (e dalla sua folle, psichedelica impaginazione).

Detto ciò, mi sembra venuto il momento di fare una riflessione su questa avventura editoriale, che negli ultimi anni ha saputo trascinarsi soltanto da una crisi all'altra. Una riflessione che riguarda anche noi, in senso più ampio. Noi e il nostro rapporto con il fare e il fruire cultura.
Il baratro economico sembra essere diventato la norma per il collettivo. E invece non deve essere affatto così. Anche se in condizioni pessime, il mercato editoriale ha riservato non poche sorprese negli ultimi anni. Ma sono sopravvissuti, o ci hanno guadagnato, solo quelli che hanno saputo investire sulla propria creatività, sulla propria capacità di reinventarsi.
Per uscire dal reparto di rianimazione, il manifesto dovrebbe innanzi tutto uscire dalla camera ristretta in cui si è orgogliosamente rinchiuso. E cioè:

1) L'equivoco peloso del non-profit. Il collettivo ama definire il quotidiano un'opera intellettuale non-profit. E' sbagliato. Se esci in edicola con un prezzo di copertina non sei non-profit. Stai in edicola, e quindi sul mercato, con tutti gli altri. E devi prendere adeguate contromisure.

(è questa la contraddizione a cui dobbiamo stare attenti. La cultura comprende un patrimonio storico-archeologico-bilbliotecario-museale: e va benissimo che sia adeguatamente conservata e fruibile dalla totalità ideale della popolazione. Ma c'è chi la cultura la fa, la produce: e qui bisogna dire che il lavoro intellettuale deve essere adeguatamente retribuito; quindi, deve corrispondere a un modello economicamente sostenibile. Infine, dichiararsi non-profit, andare in edicola con un prezzo di copertina e farsi pagare a fine anno dallo Stato, cioè da noi, non è molto corretto.)

2) Il senso dell'opportunità. Non puoi mandare 5 inviati alla mostra del cinema di Venezia, come fa il Corriere. Perchè non sei il Corriere e perché con quei costi di una settimana ci faresti magari un mese di stipendi (a occhio e croce).

3) Il salto evolutivo. Se la carta stampata è diventata insostenibile per i tuoi bilanci, devi evolverti. Come? Innnanzitutto sul web: come hanno fatto Il Post, Linkiesta, Lettera43. Una redazione più leggera, ma viva. Se muore il mezzo, non devi morire anche tu, non sta scritto da nessuna parte.

4) Un settimanale. Visto che la carta è ancora la parte nobile dell'editoria, perché non restare in edicola come settimanale? Si tagliano drasticamente i costi e puoi dedicarti all'approfondimento e all'analisi che ti contraddistinguono.

Ora, dico io, ma perché quei vecchi comunistoni non capiscono 'na mazza di editoria? Perché non ci assumono per il rilancio?

(nell'immagine, la copertina più incredibile della loro fantastica storia)

appunti per un manifesto rigattierico sul lavoro

giovedì, luglio 28, 2011

È da tempo che vorrei proporre un ragionamento collettivo e generazionale sul concetto di LAVORO. Su questo blog ne discutiamo spesso, da anni. Ora, siccome ieri è uscito il manifesto di TQ e mi sento un po' questo spirito generazionale da manifesto, vorrei sottoporvi alcune riflessioni che potrebbero diventare la base del nostro manifesto, il manifesto rigattierico sul lavoro (MRSL). Che ovviamente ha pretese universalizzanti e generaliste, sennò non sarebbe un manifesto. Due cose, essenzialmente, che andrebbero forse ripensate:

1) Dice che il lavoro, se è lavoro, è pagato, altrimenti non è lavoro. 

Ah beh. D'accordo siamo d'accordo tutti. Però uno si guarda attorno e vede che c'è veramente tanta gente (della nostra età, per lo più; ma la nostra età è molto ampia e si amplia sempre di più) che fa per molto tempo un'attività a tempo pieno che non viene pagata (o quasi: ma è sempre l' "o quasi" che ci fotte, n.b.): e non certamente per piacere. Non lo si vuole chiamare lavoro? Beh, allora bisognerà inventarsi un nome nuovo.
Il punto 2) è in qualche modo conseguenza di 1), gli è dunque strettamente connesso da un punto di vista logico, e tuttavia può darsi anche indipendetemente da 1) e soprattutto non è quasi mai esplicitato. Lo potremmo chiamare "Corollario della frustrazione lavorativa". 

2) Il lavoro è lavoro se è sofferenza. 

Con tutta la retorica annessa ("sto andando a lavorare"; "ho lavorato tutto il giorno"; e tutte le variazioni sul repertorio). In due parole, il corollario della frustrazione lavorativa implica che se uno impiega diverso tempo a fare un'attività e (mettiamo) si diverte, e magari viene pure pagato (poco o molto non importa - e molto è sempre un concetto relativo), "vabbé ma quello mica è lavoro".

Breve conclusione. C'è confusione. E la confusione linguistica è spesso sintomo di confusione concettuale. Ergo, per questa generazione (che non siamo TQ, chiamiamoci più modestamente rigattieri, o se volete VT), mi sembra prioritaria innanzitutto una riforma lessicale.


I filosofi delle università

domenica, aprile 10, 2011

Ieri è uscito sul manifesto questo articolo di Paolo Godani, che ci riguarda direttamente in quanto riguarda tutti quelli che studiano o hanno studiato filosofia e lo hanno fatto in una qualunque università italiana. E probabilmente non solo quelli che studiano filosofia. Lo metto qui, mi auguro che non cada nel nulla (non tanto qui: ma in generale). Ma se tanto mi dà tanto, temo che i filosofi delle università non avranno non dico il coraggio, ma nemmeno la voglia di raccogliere la sfida: gli riesce così bene fare spallucce...