fa ride

sabato, agosto 29, 2009

secondo me fanno ride le salviette umidificate che pandy ha portato a bucicò e piazzato sul cesso: si chiamano Bout' (de) chou, ma la cosa che più fa ride è lo slogan: laisse les fesses propres et douces

Sciascia, un ricordo di Camilleri

giovedì, agosto 20, 2009

" Una volta, leggendo il carteggio Pirandello-Martoglio, mi venne d’osservare che in Sicilia l’esercizio dell’amicizia è un’arte assai difficile da praticare. Infatti, tanto più profonda e sincera è l’amicizia siciliana e tanto è più fragile, basta un nonnulla a romperla. Dopo anni d’intesa, di collaborazione, di aiuto reciproco, Pirandello rimprovera a Martoglio una parola. Una sola parola, non una frase, che non andava detta. E da quel momento non si scriveranno più, non si frequenteranno più.

In Sicilia non c’è bisogno di chiedere un favore a un amico, è a questo che spetta il compito d’intuire ciò che l’altro vuole e farlo sollecitamente senza dirglielo. Tra loro non possono esistere zone d’ombra, segreti, ci si è detto tutto come fanno gli innamorati. E tra i due amici, più che la parola, il mezzo di comunicazione più usato è sempre il linguaggio muto, fatto di sguardi e di gesti appena avvertibili.

In questo senso, posso tranquillamente affermare di non essere mai stato amico di Leonardo Sciascia. Tranne che per una cosa: il nostro linguaggio muto funzionò benissimo fin dal primo incontro. I suoi amici veri, quelli della cerchia più stretta, lo chiamavano «Nanà», io mi rivolgevo a lui con «Leonà». E Sciascia mi chiamò sempre per cognome, «Cammillè», con due emme, alla contadina.

Il primo contatto che ebbi con lui fu epistolare. Lavoravo con Angelo Guglielmi al servizio sperimentazione Rai, Angelo era fresco di successo per aver varato Candid camera ed ebbe l’idea di produrre uno sceneggiato su un tema allora ancora inedito, la mafia. Sciascia aveva appena pubblicato Il giorno della civetta e perciò gli scrissi se voleva lavorare per noi. Gli proponevo il soggetto e la sceneggiatura sul caso Notarbartolo, un delitto degli inizi del ’900, che per primo mise in luce il rapporto mafia-banche-politica. Mi rispose declinando l’invito, mi spiegò che la documentazione a lui indispensabile, e cioè la lettura dei vari atti processuali, gli avrebbe portato via troppo tempo.

Qualche mese dopo il Teatro Stabile di Catania mi propose la regia del Giorno della civetta, al cui adattamento stava lavorando Giancarlo Sbragia. Accettai con entusiasmo e cominciai a seguire il lavoro di trasposizione dal romanzo alla scena. Un pomeriggio Sbragia mi fece trovare a casa sua Sciascia che non avevo mai visto prima. L’adattamento era quasi terminato e Sbragia glielo lesse. Sciascia ascoltava in silenzio e ogni tanto mugolava o bofonchiava. All’epoca parlava pochissimo, si esprimeva più che altro con monosillabi. Sbragia, interdetto, a ogni bofonchio s’interrompeva, prima guardava lui e poi me.

Io gli sorridevo rassicurante. Perché, guardando a mia volta Sciascia e lui guardando me, avevo capito che l’adattamento lo soddisfaceva. In quell’occasione gli domandai cosa ne avrebbero pensato i mafiosi del nostro spettacolo. E lui: «Saranno seduti in prima fila ad applaudire, la mafia è vanitosa». Poi, con mio grande rammarico, dovetti rinunziare a quella regia. La portò a termine un altro.

Nella primavera del 1977 tornai per una decina di giorni al mio paese in Sicilia. Un giorno, Sciascia mi telefonò invitandomi ad andarlo a trovare a Racalmuto. Lui abitava fuori del paese, in aperta campagna, una località detta «la Noce». Mi accompagnò in macchina un amico. \ Ci venne ad aprire una signora che allora non conoscevo, ci domandò cosa volessimo. Mi presentai, risposi che ero stato invitato da Leonardo. Gentilissima, la signora, che era la moglie, mi disse che suo marito era andato in paese, ma che sarebbe tornato al massimo entro una mezz’oretta. Se intanto volevamo accomodarci…

Decidemmo di raggiungerlo in paese, che era poco distante. All’inizio del corso che attraversa Racalmuto, parcheggiammo e scendemmo. Erano le 11 di una mattina di maggio, splendida, luminosa, calda. Lungo i marciapiedi molti racalmutesi avevano sistemato delle sedie e stavano in silenzio a godersi il sole, ad «allucertolarsi».

Mi avvicinai a due quarantenni che parlavano fitto ridacchiando: «Scusino, hanno visto passare Sciascia?».

Alzarono la testa, mi guardarono stupiti. «Come ha detto?» domandò uno dei due.
«Ho chiesto se avevano visto passare Sciascia».
«Non lo conosciamo» mi rispose quello, troncando.
Fatti alcuni passi, nuova fermata davanti a un gruppo di quattro anziani. «Scusino, conoscono Sciascia?».
«Cu?» mi domandò stupito uno.
«Leonardo Sciascia, lo scrittore».
«Iu nun lo canuscio. E voi lo conoscite a un certu Sciascia?» chiese rivolto agli altri tre.
Quelli risposero quasi in coro: «Nonsi, non lo canuscemo».
Giungemmo tra i tavolini all’aperto di un caffè. Due o tre erano occupati. Ci sedemmo un pochino scoraggiati. Arrivò un cameriere.
«Due caffè. Senta, per caso lei conosce Sciascia?» chiesi.
Mi guardò allarmato. «No. Chi è? Perché?».
«Vuole domandare per favore se qualcuno dei signori qui seduti lo conosce e se l’ha visto passare?».
Il cameriere andò verso i tavolini occupati, parlottò a lungo, tornò allargando le braccia. «Non lo conosce nessuno».
La situazione però era cambiata di colpo. Ora tutti ci stavano puntando gli occhi addosso. Era come se avessi fatto domandare loro se avessero visto transitare Oscar Wilde.
Bevemmo il caffè, ci alzammo.
«Torniamo alla Noce?» propose il mio amico dopo un po’.
«Facciamo un ultimo tentativo».
Passava un ragazzino, poteva avere un tredici anni, l’aria molto sveglia. «Senti, tu lo conosci a Sciascia?».
«Sissi» rispose pronto.
«Sai dove possiamo trovarlo?».
«’N farmacia è. Chiddra» fece, indicandocela.
Ci precipitammo nella farmacia. Entrammo, c’era una cliente, aspettammo il nostro turno.
«Desiderano?».
«Cercavamo Sciascia».
Il farmacista non rispose subito. Stette un pezzo a squadrarci da capo a piedi. Infine dovette rendersi conto che non eravamo né killer né giornalisti importuni.
«È andato alla posta».
Ci spiegò dove si trovava l’ufficio postale. Arrivammo col fiatone. Era deserto. C’era un’impiegata dietro uno sportello.
«Cerchiamo Sciascia».
«È uscito ora ora».
Guardammo nei paraggi, non lo trovammo.
«Torniamo alla Noce» dissi, definitivamente sconfitto.
E in quel momento mi sentii chiamare. «Cammillè!».
Era Leonardo che arrancava col bastone verso di noi. Ci abbracciammo. «Andiamo a prendere un caffè» propose.
C’era un bar a due passi. Mi mossi, mi fermò. «No, quello no».
Mi prese sottobraccio e mi fece rifare, a lento, chiacchierando, tutto il corso.
Quando passò davanti ai tavoli all’aperto del caffè, quelli che avevano negato cinque minuti prima di conoscerlo si alzarono e lo salutarono con rispetto. Lo conoscevano benissimo. E lo stesso fecero i quattro anziani e i due quarantenni.
Allora capii che tutto il paese aveva voluto proteggere la privacy di Sciascia da due sconosciuti. E che Sciascia mi stava facendo ripercorrere il corso tenendomi sottobraccio per far sapere a tutti, in questo modo, che io ero un suo amico. Che io non gli portavo disturbo.
Andammo assieme alla Noce. Al momento di accomiatarci, mi invitò a tornare da lui l’indomani, voleva farmi vedere uno scritto pirandelliano che aveva prestato a qualcuno.
«Vengo qui o in paese?».
«Vieni in paese».

Il giorno appresso il mio amico non poté accompagnarmi, presi un taxi. Lo feci fermare all’inizio del corso. I due quarantenni erano ancora lì, sulle loro sedie. Forse avevano passato la notte all’aperto.
Appena mi videro, balzarono in piedi: «’U profissuri ora ora passò! È annato di là!».
E stavolta, guidato dai racalmutesi, ci misi poco a incontrare Sciascia. "


Andrea Camilleri - La Stampa, 28/06/2009

I clown(s)

martedì, agosto 11, 2009

Comincio a capire quali siano i miei punti deboli. Ci sono cose a cui non riesco a resistere, e finisce che mi commuovo. Tra queste, gli epitaffi (magari non proprio “Padre affezionato, marito devoto, amico sincero, lavoratore indefesso, cittadino esemplare”), i film di Fellini (so che potrebbe suonare un po’ snobbettino, ma tant’è), i pagliacci. Ora, visto che ho trovato queste tre cose insieme, ho pensato di infliggerle alla comunità.
Segue l’epitaffio per la scomparsa del pagliaccio nel film(-documentario) di Fellini I clowns.

“Signore e signori,
vola per le osterie una triste notizia: il signor Augusto, detto pagliaccio, s’è dipartito, involato deceduto: è morto. I suoi pochi amici e i suoi molti creditori piangono l’immatura scomparsa avvenuta a soli duecento anni d’età. Non si poteva dire bello, non si poteva dire intelligente, non si poteva dire niente su di lui, perché ad ogni più piccola osservazione, replicava lanciando zampilli di saliva sulla faccia. In questa triste occasione dovrei fare un discorsetto sulla natura del trapassato in modo da far restare un buon ricordo di lui. Amici carissimi, l’impresa è disperata. Come faccio a parlarne bene? È difficile trovare un solo episodio in tutta la sua sgangherata esistenza che ci potrebbe far dire “ma in fondo era un bravo figlio”. È sempre stato un buono a nulla, un pigro, ubriacone, attaccabrighe, scansafatiche, disonesto nel giocare, infido nelle amicizie, tormento del padrone di casa e dell’esattore della luce. Piangiamo tutti la tragica notizia che egli è morto adesso anziché nel momento in cui l’ostetrica ha detto “è un maschio”. Nella sua lunga e deplorevole esistenza si è dedicato ai secchi d’acqua in faccia, uova rotte sul cranio, pennellate di sapone nella bocca. Suonava il trombone coi piedi e ballava il tango con le orecchie. Faceva ridere i bambini e piangere i propri figli. Io, nella mia qualità di clown bianco e suo fraterno nemico ho cercato in ogni modo di impartirgli una civile educazione a base di legnate sulla testa, pestate sui piedi, cazzotti sulla nuca. Ma l’Augusto pagliaccio, ribelle ad ogni consiglio, ha continuato la sua turpe carriera di grottesco ubriacone, continuando imperterrito a dibattersi sotto una pioggia di uova marce, schizzi d’acqua sporca fino a crepare soffocato da un uovo di struzzo che, entratogli nel naso, si è bloccato nella profondità della terza carotide della quarta faringe a sinistra provocando l’arresto dei polmoni e la fuoriuscita dell’anima dall’orecchio destro.
Egli non è più. Per fortuna rimango io. Piangete, fratelli, se volete; per mio conto ho già pianto fin troppo quando lo dovevo sopportare al mio fianco nella pista del circo.
E così sia”.


Mi rendo conto, rileggendo, che così rende infinitamente meno che nel film, e dunque ho pensato di mettervi pure il link alla scena su Youtube. Ora, però, il punto dolente è che la scena in rete comprende anche il finale del film, il che potrebbe effettivamente creare qualche problema alla vostra futura visione del medesimo, che mi dispiacerebbe molto rovinarvi (salvo che non l'abbiate già visto tutti).
Insomma, vedete voi che fare, che ormai siete grandi, e io c’ho già da pensare al vestito da Priscilla per la festa di ferragosto.

La gnosi del Ferari

mercoledì, agosto 05, 2009

...e intanto il sole schicchera gigliese...


Temevo che sarebbe successo. Ferari mi aveva consigliato quel libro, lo aveva regalato a destra e a manca, era uno dei suoi preferiti. E io, farlocco, gli credetti. Lo ascoltai. Mi disse anche che ne aveva copiato un pezzo a mo' di dedica, nel regalarlo a un'amica. Ritozzo, il ferari, mica scemo. Giunto quasi alla fine, gliene chiesi conto:

- Ferari, scommetto che hai ritorcerato la dedica che hai scritto su quel libro. O forse la strimemori?

Lui me la ferestò, via sms, com'era solito. Aggiunse anche che per lui era il momento più alto, quello più scadrante.

- Scadrante? - dissi io, per nulla fressato, - A me è parso metrofico come tanti altri!

- Non saprei trovare aggettivo più icastico - disse lui, - non direi che fosse carcilico né mi pare opportuno parlare di fogino. Di certo non metrofico. Si vede che non sei entrato molto in ipsi.

Non ci vedetti più dalla lorba.
- Sei il solito pringale, c'è poco da fare. Invece di argomentare, forelli di terlizze le solite chiacchiere. Ma non mi saggellerai: sono vèlito, io.

Al che lui, cernito come non mai:
- Non mi aspettavo che fossi così filzione. Vorresti pilliari (come dite in Sicilia), e invece continui a prestolare la emba. Ma ricorda: "chi anesta lo zulivo in marzo non lo carlinerà certo in tullesi". Anesta. Come vedi non te le mando a dire.

Di certo non aveva imparato niente del siciliano, lo usava come se fosse un gerzone. Ma rimasi sluto, e non potei che aggiungere un classico:
- Coresto...
Poi mi ripresi. Lo accusai, passai al varsellotto, e gli dissi che se fosse stato meno forlacco, avremmo potuto scrivere in onore di Maraini, che lui certo bevenzava dal sapere chi fosse, un gerlin-post per questo blog da tempo nellicato. Sapete cosa ebbe l'affrenza di rispondere?

- Sono forlacco e non me ne scotussisco. Specie ora che sono in carolla. Quanto a Maraini, è stio: l'ecolato. E post a più colenze non so tamarli, noramente.

Questa volta aveva dergito ogni limite. Offeso, sconcertato ma soprattutto respotico, per essere esatti, non potei che congedarmi, forse per sempre, con un sorianico:
- Non ti peritosco più.