Capita a New York che cp femmina in metropolitana non si tenga agli appositi arreggini e se ne voli gaiamente addosso a niuiorchesi orientali sbigottiti.
Capita a New York che segui un convegno di epistemologia storica (e questo, francamente, è strano).
Capita a New York che qualcuno segue un convegno sull’epistemologia storica e poi se ne scappa via, se ne torna nella ventosa Chicago senza aver visto, chessò, Central Park, o il Moma.
Capita a New York che la M&M’s (i cioccolatini colorati, per capirsi) abbiano un megastore di tre piani con tanto di scale mobili, nel mezzo di time square, con tanto di maxischermo gigante fuori che trasmette ininterrottamente le scenette della M&m rossa e della M&m gialla.
Capita a New York che le metropolitane invece non abbiano una cazzo di scala mobile su tutto il territorio urbano.
Capita a New York che qualcuno dica che questa cosa che non ci sono le scale mobili è una forma di biopotere (giuro).
A New York, in effetti, capita di essere l’unico in mezzo a 7 (talvolta 8, se c’è anche quello rasato con l’orecchino; talvolta perfino 9 se c’è pure il finlandese che mi chiama “the loud one”) a non essere foucaultiano.
Capita a New York che gli amici foucaultiani passino una sera a contestare da sinistra il boicottaggio della coca cola, il che mi fa essere di destra anche se faccio una cosa che sembra di sinistra ma che quelli più di sinistra non hanno voglia di fare.
Capita a New York di passare per il ponte di Brooklyn, e poi ripassarci, e poi ancora, e tutte le volte restare sbigottiti e chiedersi se ciascuno di noi ha una buona scusa per sbriciolare la sua vita altrove (e non mi riferisco solo ad Arcavacata di Rende).
Capita a New York di scoprire che Little Italy è solo una strada di Chinatown, in cui di italiano c’è solo un busto di Mussolini (e non di mussolina, come mi vorrebbe far scrivere il computer revisionista) in un negozio di paccottiglia che vende ciddì di cantanti neomelodici con improbabili nomi italiani (Alfio uno, l’altro lo sa ciccì) al cui confronto Gigi d’Alessio sembra Sergio Endrigo.
Capita a New York che un sabato all’ora di pranzo (avendo sapientemente bigiato il convegno) sei l’unico bianco in mezzo ai compagni black panther di Harlem, con il tipo sullo sgabello che incita i neri alla rivoluzione contro il potere tirannico bianco (tirannico? Io?), e con gli altri che fanno la break dance in mezzo a milioni di persone, e con quello che ti sorride e ti chiede “Do you wanna meet Jesus?” (Testa bassa e “Ai no spik inglisc”, naturalmente, non capendo se si trattasse di un invito o di una minaccia).
Capita a New York che torni ad Harlem con Sisì un sabato sera, nella stessa strada, e ci sono più bianchi che afroamericani, e i pochi che ci sono ti vendono una maglietta di Obama e una spalletta con scritto “save Harlem” chiamandoti “Sir”.
Capita a New York che incontri Woody Allen (ma questo non è capitato a noi, purtroppo).
Capita a New York che costringi l’amicocò (e che resta un po’ in apprensione per la paura che gli rubino le scarpe nuove che ha indosso) a fare un giro per il Bronx, ed è bellissimo, una periferia piena di vita e di portoricani.
Capita a New York che una sera vai a vedere un concerto di Jazz avanguardistico, e che nell’intervallo hai l’onore impareggiabile di stringere la mano ad uno dei più grandi jazzisti viventi (George Lewis, credo si chiami), un omone nero enorme e simpaticissimo.
Capita a New York che alla fine del concerto Jazz d’avanguardia ti rendi conto che ti ha dato piacere quanto andare a cavallo senza sella (per noi maschietti). Come un film di Straub, insomma.
Capita a New York che invece ai foucaultiani il concerto sia piaciuto moltissimissimo, meglio di una scopata, pura vida (nota polemica ma in realtà invidiosa. Ma anche polemica).
Capita a New York che Von Trotta ti trascini al museo dell’emigrazione, dove riesce perfino a ritrovare il nome e la data di arrivo di un suo parente emigrato.
Capita che a Von trotta la dolcezza per il parente ritrovato dura un paio di minuti, dopo i quali, davanti a un Hot Dog, ricomincia a prendersela con gli Yankee, che si autocelebrano per aver dato lavoro a noialtri, che però se non c’eravamo noi…
Capita a New York che i rutti di cp maschio siano veramente una cosa di cui la natura dovrebbe vergognarsi.
Capita a New York che esci per farti una serata nel quartiere figo di Williamsburg, ma dopo cinque minuti Sisì scopre un ristorante sardo e si commuove; entrate a mangiare e lui ti racconta tutta la sua genealogia familiare con le lacrime agli occhi, e poi ti spiega (ti prova a spiegare, che se non sei di Oristano mica puoi capire davvero) la Sartiglia, e il ruolo di Su Compoidori (speriamo di non aver fatto errori di ortografia). Quindi nell’entusiasmo ordina una bottiglia di Cannonau che da sola risolleverebbe gli Usa dalla crisi, e cibo per sedici.
Capita a New York (ma questo non l’ho visto con i miei occhi, ma lo racconta Sylvia K) che a Greenwich in un locale c’è un bagno in cui i separè tra un cesso e l’altro sono trasparenti; ma la curiosità-imbarazzo dura solo finchè non ti ci chiudi dentro, perché allora i vetri cominciano a oscurarsi.
Capita a New York di andare a vedere una tavola rotonda sulla sessualità, cui partecipa anche il nostro professore americano preferito; c’è anche una dominatrice professionista, una tipetta un po’ scialba, molto borghese e molto intimidita, che però se le dai 500 euri ti caca in faccia o ti frusta.
Capita a New York che Sisì ti porti a fare il giro dei luoghi cult di Gossip Girl, raccontandoti nel frattempo il primo appuntamento tra Serena Van Der Woodsen e Dan Humphey (lei ricca upper east sider, e lui relativamente povero ma brillante brooklynense: una storia da togliere il fiato).
Capita a New York che una tipa di nome Vincenza Samaritano ti ferma in metro per raccontarti che suo padre è siculo, ed è lui ad averla castigata con quel nome, e poi, nel mezzo del discorso capisca (troppo tardi) che era la sua fermata e cerchi di suicidarsi tra le porte che si chiudono; e ce la farebbe pure, se un tipo non la salvasse dalla morsa.
Capita a New York di bere un “Just Jack” (o un “JJ”, per noi uomini di certe frequentazioni), ovvero un Jack Daniels liscio, appollaiati una domenica notte ad un bancone di legno di un bar di Chelsea (il quartiere finocchio dove alloggiamo), con tanto di Juke box, parlando con quel figo che parlava al convegno (e che poi è l’unico dei due che si beve davvero il JJ), mentre ciccì racconta a Pavanti vita, opere e miracoli di Britney Spears, di cui ha appena messo un paio di singoli sul giùbocs.
A New York capita che mangi tre giorni di seguito al Burger King, ma siccome non sei fucoltiano, non bevi coca cola, che invece aiuterebbe a digerire.
A New York capita che questo abbia come conseguenza indesiderata la quasi morte del sottoscritto che vomita a ripetizione e si congestiona proprio la notte prima di partire (col pullman, un ventinaio di ore di viaggio), e non riesce a muoversi dal letto, nonostante le attente cure somministrategli da Sisì in versione infermiera.
Ma forse è stato meglio così. Era l’unico modo per partire senza troppi rimpianti dalla mela che ci lasciavamo alle spalle.