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vento e sanità

domenica, novembre 30, 2008


In America ti può succedere di essere sfortunatamente, o per tua fortuna (dipende dai punti di vista), l'unica testimone di una scena davvero divertente; talmente divertente che, mentre te la stai godendo, già cominci a sentire la voce del capo che ti fischia nelle orecchie e che ti avverte che se non scrivi qualcosa a riguardo sul blog sei davvero un'ingrata e che quindi questa volta non potrai dire "m'abbutta!!!".
Anche questo sabato mattina sono andata al mio corso di inglese che si tiene ogni sabato alle dieci e dura tre ore (una condanna si potrebbe dire). I corsi di inglese in america sono generalmente popolati di "cacariso" (come mi è stato insegnato a chiamarli al mio arrivo…) poco comunicativi (coreani, cinesi, giapponesi, vietnamiti), e di una buona percentuale di latinoamericani logorroici, messicani perlopiù.
Per il primo mese del corso sono stata l'unica italiana.
Il secondo mese decide di intraprendere “l'esperienza del corso di inglese” anche un italianissimo rigattiere assiduo scrittore di post e direi tra i più celebri e nominati del blog, al quale vengono attribuiti i post anche quando non è lui a scriverli.
Ci accordiamo però, io e lui, di sederci sempre distanti e di non parlare mai tra di noi, quasi quasi all'inizio facendo finta di non conoscerci.
Così in america mi è capitato un po' per caso di trovarmi ogni sabato mattina nella stessa aula insieme ad ilfe (che faccio finta di non conoscere), latinoamericani logorroici e cacariso asociali.
Questa mattina Jim, il "robusto" e un po' sad insegnante di inglese (tra le prime persone di cui mi sono innamorata in america), ci ha fatto fare un divertente giochetto: ognuno doveva scrivere alla lavagna nella propria lingua qualche proverbio e poi tradurlo e spiegarlo agli altri in inglese. I proverbi presentati erano tra i più vari: quelli vietnamiti e giapponesi che non sembravano granché sensati (ma bellini scritti con gli ideogrammi), un paio turchi e poi quelli spagnoli che invece avevano più senso e corrispondevano ai nostri, come per esempio "chi dorme non piglia pesci". Il giochetto era anche divertente perché si riconoscevano i proverbi corrispondenti nelle diverse lingue e si faceva lo scambio cul-turale.
Ad un certo punto arriva il turno del nostro eroe.
Ilfe si alza dal suo posto con molta serietà, prende il pennarello in mano, va alla lavagna e comincia a scrivere i suoi tre proverbi (forse preferiti). Parte con il primo:
"IN TEMPO DI CARESTIA OGNI BUCO E' GALLERIA!". Ilfe cerca di spiegarlo, anzi, lo spiega senza apparenti ostacoli argomentando bene in inglese e rivolgendosi al coreano con gli occhiali sbigottito che non capiva nulla (io ridevo tantissimo e non ci potevo credere); il messicano capisce qualcosa e ride anche lui; jim non ride e imbarazzato cerca di trovare un corrispettivo proverbio in inglese. Ilfe vigoroso sbattacchia il pennarello come uno che sta insegnando l'alfabeto a un bambino a scuola. Quando gli sembra di aver esaurito la spiegazione ecco che arriva il secondo proverbio:
"QUANDO LA BOCCA PRENDE E IL CULO RENDE, SI VA IN CULO ALLE MEDICINE E A CHI LE VENDE". Questo è un po' più complicato, nessuno capisce bene e nemmeno io, ma ilfe traduce, eccome se traduce, e io rido a crepapelle con la voce del papà-capo nelle orecchie "pavi il post, pavi!!!" Un po' noncurante del fatto che il coreano e il giappo non capiscono nulla, ilfe è impaziente di arrivare alla fine: ilfe vuole rendere partecipi tutti, ma proprio tutti (cacariso e messicani di ogni sorta) del suo cavallo di battaglia, della sua rivendicazione più agguerrita, forse della sua metafora di vita o comunque della sua frase più, oserei dire, performativa (!!). E glorioso scrive di gran carriera:
"VENTO DI CULO, SANITA' DI CORPO!"
E via con la traduzione, la perifrasi, il significato, il senso della metafora, la soddisfazione profonda....Questa metafora di vita viene capita un po' di più, la vietnamita lancia un timido sorriso, la messicana logorroica qualche gridolino, il coreano si lancia in traduzioni nella sua lingua!!! Ilfe è talmente glorioso che nemmeno ride. No, non ride, è serio nella sua presentazione, come sono piuttosto seri tutti i partecipanti del gioco tranne me che rido abuso con le mani nei capelli. Finita la spiegazione dei suoi proverbi preferiti ilfe abbassa il pennarello e jim lo manda al posto con il timido applauso dei presenti che forse ben poco avevano capito ma qualcosa d'ilfesco avevano colto. Il nostro eroe se ne torna così al banco da vincitore, con il suo sorriso da gatto beffardo che ha finalmente spiegato il suo alfabeto.

Questo post è da intendersi in due modi: 1) una testimonianza davvero divertente sul gestirsi di un rigattiereviareggino fuori dal suo habitat. 2) Un significativo contributo all'eliminazione della musichettachefafarefiguredimerdainbiblioteca. per questa campagna anche cpfemmina arriva a scomodarsi!!! a bientot

Notizie dall'impero 5 (o 6). Yes, we did!

giovedì, novembre 06, 2008

Tenteremo, in questa occasione storica per il mondo intero, di fare una cosa, per così dire, inusuale. Trattasi infatti di post gemellare.
"Le opinioni sono come le palle: ognuno ha le sue", diceva un tipo famoso (e le hanno solo gli uomini, ci sentiamo di aggiungere); era inevitabile dunque che il post elettorale, pur nel nome augusto di Obama, fosse diviso in due parti, la prima a firma Sisì, la seconda a firma Ilfe. Non è escluso che altri contributi (dei due cippì) si aggiungano strada facendo, dando vita ad un mostro quadricefalo, così come da domani aggiungeremo alcune foto d'autore, e il filmino che sisì ha stoicamente girato per voi.

1.
"Parlare di queste elezioni per me è difficile. Difficilissimo. Perché è difficile spiegare cosa significa quando 300mila persone vanno tutte in una piazza pronte a festeggiare qualcosa. Noi italiani, se scendiamo in 300mila in piazza, possiamo festeggiare al massimo la Nazionale che ha vinto i mondiali, ma se è per la politica, in piazza scendiamo solo per lamentarci – avendo sempre ottime ragioni, peraltro! Ma qui no. Cioè, anche qui scendono in piazza. Cioè, stavolta sono scesi in piazza, tanti, anzi tutti (bianchigayfranchiricchiispanicipoverilelleasiani) per festeggiare la vittoria di un uomo alle elezioni presidenziali. E come si fa a spiegare questo? Io non lo so fare, questo è sicuro. Almeno non lo so fare da solo. Quindi, mi aiuto con alcune delle frasi che ho sentito o letto sui giornali in questi ultimi giorni.
“Qua si sta a cambia’ il mondo, e voi pensate a farvi la doccia?” disse ilfe impaziente di arrivare a Grant Park ma bloccato dal ritardo provocato dalla eccessiva (secondo ilfe, si intende) igiene di Pavani. Qui si sta a cambia’ il mondo, disse… Porca miseria, ha raggione, altroché se si sta a cambia’ il mondo. Un presidente nero! Oh, ma stiamo a scherza’?! In un posto dove nelle Università è raro vedere un afro-americano e dove è ancora più raro trovare una cassiera bianca, dove i ghetti ci sono – eccome se ci sono – e l’apartheid funziona benissimo pur sotto le insegne della democrazia, viene eletto un presidente nero. E questo posto non è un posto qualsiasi, è l’Ameri’a! L’uomo nero alla casa bianca! Ma qui la storia la stiamo cambiando per davvero, e cambiando per sempre, non così per dire! Non come quando Berlusconi dice che Bush passerà alla storia: no, no, qui è tutta un’altra cosa! Qui secoli di sfruttamento, di schiavitù, di tortura si concentrano in un’elezione, in un uomo, in un presidente che davvero cambia tutto solo per il fatto di essere eletto. Un presidente i cui sostenitori gridano “Yes we did!”, ma lui no, lui è un presidente che nel suo discorso dopo l’elezione non dice yes we did, ma dice “Il lavoro è appena cominciato”. E ha ragione. Il lavoro è appena cominciato, e sarà duro. Perché la gente, lei si aspetta davvero un gran bel lavoro: se lo aspetta la signora con un tutore al braccio che, incontrando un’amica in farmacia, le dice “I had surgery yesterday… but everything is o.k., ‘cause today I’m happy!”, e se lo aspetta la cassiera del supermercato dove faccio la spesa che, parlando con una cliente, dice “You can say’t, something’s gonna change”. E questi cambiamenti non dovranno, non potranno essere da poco: Obama ha promesso infrastrutture migliori, ha promesso scuole migliori, ha promesso un sistema sanitario migliore e più equo. Se a questo si aggiunge che è in corso la peggiore crisi economica dal 1929 – i giornali americani lo stanno ripetendo fino alla nausea – non ci si può che chiedere: ma come farà? Come riuscirà a dare a tutti quello che vogliono, come riuscirà a mantenere tutte le promesse che ha fatto?
E questo ancora non è tutto. Con la sua elezione Obama ha già cambiato e potrà ancora cambiare l’Ameri’a, ma che ne sarà del resto del mondo? Anche il mondo ha bisogno di essere cambiato. E ti accorgi di quanto il mondo abbia bisogno di essere cambiato quando leggi sul New York Times che Fathi Abdel Hamid, avventore di un caffè a Il Cairo, ha dichiarato che “Since Bush came to power it’s all bam, bam, bam on the Arabs”, oppure quando il tassista che ti porta a casa dopo Halloween non fa altro che ripeterti “Vote Obama, Bush motherfucker go home”. Il mondo vuole essere cambiato, dopo che negli ultimi 8 anni ha dovuto convivere con la paura degli attacchi terroristici e con quelle guerre preventive che non hanno prevenuto la morte di migliaia di persone. E anche lì, lo sappiamo bene tutti, il lavoro si presenta tutt’altro che facile…
Un uomo è stato eletto, ed è diventato l’uomo più potente del mondo. Per la prima volta nella storia, il colore della sua pelle non gli ha impedito di diventarlo. Noi lo abbiamo supportato, lo abbiamo seguito, ci abbiamo creduto, non lo abbiamo potuto votare ma siamo (sono) rimasto 15 minuti con le braccia alzate per riprendere il suo primo discorso da presidente (che ariva, appena capiamo come metterlo!).
Ora sta a te, Obama, e il mondo ti guarda: vedi di fa’ a modino!"

Sisì

2.
"Cp maschio vive attaccato ai cristalli liquidi del suo computer da almeno un paio di mesi. Gli danno i sondaggi. E lui non esce di casa senza averli mandati a memoria. È chiaro che il giorno delle elezioni sia un po’ teso. A lezione si fa uno specchietto in cui scrive tutti gli stati. Tutti. Divisi tra certiObama-probabiliObama-forseObama-speriamoObama-DioxxxaleMcCain. Alle sette a casa sua si hanno le prime proiezioni. Forse bene. Ma forse no. Cp femmina, la guerrigliera, dice che forse è meglio non andare in piazza fino a quando siamo sicuri, sennò se perdiamo i franchi fanno il riot, e la police ci mena. Per fortuna andiamo lo stesso. Il pullman si ferma dopo due minuti e non si muove più. Vado dall’autista nera per avere informazioni. Immagino che mi mangi. Invece è tutta contenta. Dice che siamo fermi perché deve passare “il presidente”. Per lei gli scrutini sono già finiti. Il suo presidente ce l’ha già. Un tizio in pullman si connette a internet. Va meglio: stiamo vincendo in Florida, in Pennsylvania, in Ohio. Forse in Virginia. Arriviamo. Fiumi di gente. Maxischermi. Magliette e spillette. Yes we can. Change. Progress. Hope. Yes we did. Yes we did? La notizia arriva prestissimo. Obama ha vinto in Virginia. Therefore: Obama president-elect. Ovazione. Brividi. Abbiamo vinto. Una volta tanto abbiamo vinto. Ma non abbiamo vinto a caso. Abbiamo vinto l’elezione più storica dell’impero. Abbiamo messo un nostro uomo sullo scranno più alto del mondo. Un professore della University of Chicago. Un nostro vicino di casa. Un rigattiere, in pratica. Appare McCain. È un signore. Si complimenta, si dice pronto a collaborare, si ricomplimenta. Fa stare zitta la Palin. Poi, dal palco accanto a dove siamo noi, dopo un bel po’ di musica, dopo Jesse Jackson che piange e Oprah che ride, arriva Lui. È bellissimo. Ce lo scoperemmo tutti. Anch’io. Si scrive una pagina storica. Ma sul serio. È nero. Proprio nero. No mezzo bianco, come dice qualcuno. Popo nero. E bello. E grandioso. E bello. La frase di apertura del discorso è da brividi. Boato. Ci sentiamo americanissimi. Cita Martin Luther King, ma senza nominarlo. Poi una tipa di centosséi anni, anche lei nera. Ripercorre l’ultimo secolo. Ripete Yes we can. E noi con lui. Ci guardiamo alle spalle. Un oceano di persone. Forse un milione. (La questura di Roma farà sapere che secondo i loro dati non eravamo più di una ventina, i soliti facinorosi). Poco dopo l’oceano si disperde. Code infinite alla metro. Gli autobus neanche passano, in mezzo al caos. Chicago non è mai stata così bella.

Oggi, the day after, bisogna fare una mezz’ora di coda e, se hai fortuna, ti becchi un giornale col faccione di Obama, altrimenti uno con una foto piccola. Il Chicago tribune però è irraggiungibile. Resta il Chicago Sun-times. Che comunque è fichissimo. La gente fa le foto alle code ciclopiche davanti alle edicole. Le macchine si fermano, suonano, salutano. Abbassano il finestrino e alzano la musica. Ridono tutti. Milioni di magliette di Obama anche oggi, almeno qui a Hide park, dove vive lui (ancora per poco). Una vecchia di colore vende cappellini di Obama e dice “today everybody be happy”."

Ilfe.

Notizie dall’impero 4. Capita a New York

giovedì, ottobre 23, 2008


Capita a New York che cp femmina in metropolitana non si tenga agli appositi arreggini e se ne voli gaiamente addosso a niuiorchesi orientali sbigottiti.
Capita a New York che segui un convegno di epistemologia storica (e questo, francamente, è strano).
Capita a New York che qualcuno segue un convegno sull’epistemologia storica e poi se ne scappa via, se ne torna nella ventosa Chicago senza aver visto, chessò, Central Park, o il Moma.
Capita a New York che la M&M’s (i cioccolatini colorati, per capirsi) abbiano un megastore di tre piani con tanto di scale mobili, nel mezzo di time square, con tanto di maxischermo gigante fuori che trasmette ininterrottamente le scenette della M&m rossa e della M&m gialla.
Capita a New York che le metropolitane invece non abbiano una cazzo di scala mobile su tutto il territorio urbano.
Capita a New York che qualcuno dica che questa cosa che non ci sono le scale mobili è una forma di biopotere (giuro).
A New York, in effetti, capita di essere l’unico in mezzo a 7 (talvolta 8, se c’è anche quello rasato con l’orecchino; talvolta perfino 9 se c’è pure il finlandese che mi chiama “the loud one”) a non essere foucaultiano.
Capita a New York che gli amici foucaultiani passino una sera a contestare da sinistra il boicottaggio della coca cola, il che mi fa essere di destra anche se faccio una cosa che sembra di sinistra ma che quelli più di sinistra non hanno voglia di fare.
Capita a New York di passare per il ponte di Brooklyn, e poi ripassarci, e poi ancora, e tutte le volte restare sbigottiti e chiedersi se ciascuno di noi ha una buona scusa per sbriciolare la sua vita altrove (e non mi riferisco solo ad Arcavacata di Rende).
Capita a New York di scoprire che Little Italy è solo una strada di Chinatown, in cui di italiano c’è solo un busto di Mussolini (e non di mussolina, come mi vorrebbe far scrivere il computer revisionista) in un negozio di paccottiglia che vende ciddì di cantanti neomelodici con improbabili nomi italiani (Alfio uno, l’altro lo sa ciccì) al cui confronto Gigi d’Alessio sembra Sergio Endrigo.
Capita a New York che un sabato all’ora di pranzo (avendo sapientemente bigiato il convegno) sei l’unico bianco in mezzo ai compagni black panther di Harlem, con il tipo sullo sgabello che incita i neri alla rivoluzione contro il potere tirannico bianco (tirannico? Io?), e con gli altri che fanno la break dance in mezzo a milioni di persone, e con quello che ti sorride e ti chiede “Do you wanna meet Jesus?” (Testa bassa e “Ai no spik inglisc”, naturalmente, non capendo se si trattasse di un invito o di una minaccia).
Capita a New York che torni ad Harlem con Sisì un sabato sera, nella stessa strada, e ci sono più bianchi che afroamericani, e i pochi che ci sono ti vendono una maglietta di Obama e una spalletta con scritto “save Harlem” chiamandoti “Sir”.
Capita a New York che incontri Woody Allen (ma questo non è capitato a noi, purtroppo).
Capita a New York che costringi l’amicocò (e che resta un po’ in apprensione per la paura che gli rubino le scarpe nuove che ha indosso) a fare un giro per il Bronx, ed è bellissimo, una periferia piena di vita e di portoricani.
Capita a New York che una sera vai a vedere un concerto di Jazz avanguardistico, e che nell’intervallo hai l’onore impareggiabile di stringere la mano ad uno dei più grandi jazzisti viventi (George Lewis, credo si chiami), un omone nero enorme e simpaticissimo.
Capita a New York che alla fine del concerto Jazz d’avanguardia ti rendi conto che ti ha dato piacere quanto andare a cavallo senza sella (per noi maschietti). Come un film di Straub, insomma.
Capita a New York che invece ai foucaultiani il concerto sia piaciuto moltissimissimo, meglio di una scopata, pura vida (nota polemica ma in realtà invidiosa. Ma anche polemica).
Capita a New York che Von Trotta ti trascini al museo dell’emigrazione, dove riesce perfino a ritrovare il nome e la data di arrivo di un suo parente emigrato.
Capita che a Von trotta la dolcezza per il parente ritrovato dura un paio di minuti, dopo i quali, davanti a un Hot Dog, ricomincia a prendersela con gli Yankee, che si autocelebrano per aver dato lavoro a noialtri, che però se non c’eravamo noi…
Capita a New York che i rutti di cp maschio siano veramente una cosa di cui la natura dovrebbe vergognarsi.
Capita a New York che esci per farti una serata nel quartiere figo di Williamsburg, ma dopo cinque minuti Sisì scopre un ristorante sardo e si commuove; entrate a mangiare e lui ti racconta tutta la sua genealogia familiare con le lacrime agli occhi, e poi ti spiega (ti prova a spiegare, che se non sei di Oristano mica puoi capire davvero) la Sartiglia, e il ruolo di Su Compoidori (speriamo di non aver fatto errori di ortografia). Quindi nell’entusiasmo ordina una bottiglia di Cannonau che da sola risolleverebbe gli Usa dalla crisi, e cibo per sedici.
Capita a New York (ma questo non l’ho visto con i miei occhi, ma lo racconta Sylvia K) che a Greenwich in un locale c’è un bagno in cui i separè tra un cesso e l’altro sono trasparenti; ma la curiosità-imbarazzo dura solo finchè non ti ci chiudi dentro, perché allora i vetri cominciano a oscurarsi.
Capita a New York di andare a vedere una tavola rotonda sulla sessualità, cui partecipa anche il nostro professore americano preferito; c’è anche una dominatrice professionista, una tipetta un po’ scialba, molto borghese e molto intimidita, che però se le dai 500 euri ti caca in faccia o ti frusta.
Capita a New York che Sisì ti porti a fare il giro dei luoghi cult di Gossip Girl, raccontandoti nel frattempo il primo appuntamento tra Serena Van Der Woodsen e Dan Humphey (lei ricca upper east sider, e lui relativamente povero ma brillante brooklynense: una storia da togliere il fiato).
Capita a New York che una tipa di nome Vincenza Samaritano ti ferma in metro per raccontarti che suo padre è siculo, ed è lui ad averla castigata con quel nome, e poi, nel mezzo del discorso capisca (troppo tardi) che era la sua fermata e cerchi di suicidarsi tra le porte che si chiudono; e ce la farebbe pure, se un tipo non la salvasse dalla morsa.
Capita a New York di bere un “Just Jack” (o un “JJ”, per noi uomini di certe frequentazioni), ovvero un Jack Daniels liscio, appollaiati una domenica notte ad un bancone di legno di un bar di Chelsea (il quartiere finocchio dove alloggiamo), con tanto di Juke box, parlando con quel figo che parlava al convegno (e che poi è l’unico dei due che si beve davvero il JJ), mentre ciccì racconta a Pavanti vita, opere e miracoli di Britney Spears, di cui ha appena messo un paio di singoli sul giùbocs.
A New York capita che mangi tre giorni di seguito al Burger King, ma siccome non sei fucoltiano, non bevi coca cola, che invece aiuterebbe a digerire.
A New York capita che questo abbia come conseguenza indesiderata la quasi morte del sottoscritto che vomita a ripetizione e si congestiona proprio la notte prima di partire (col pullman, un ventinaio di ore di viaggio), e non riesce a muoversi dal letto, nonostante le attente cure somministrategli da Sisì in versione infermiera.

Ma forse è stato meglio così. Era l’unico modo per partire senza troppi rimpianti dalla mela che ci lasciavamo alle spalle.

Notizie dall’impero. Parte prima: i Chicagoni.

venerdì, settembre 19, 2008

Dormire nello stesso letto (a una piazza e mezzo) con CC (SiSì, per gli amici chicaghesi) in maglietta della salute ha anche dei lati positivi. Uno di questi è che mentre tu (cioè io, nella fattispecie) sei lì che scrivi una meil alla penisola, lui legge la guida di Chicago e ti dice che non si dovrebbe dire Chicaghesi, ma Chicagoni (chicagones, nell’idioma locale, che fa ancora più effetto se lo leggi all’iberica). Altri lati positivi, no, ma questo già non è poco.

Apparte questo, allo scadere della settimana dalla nostra partenza, si reclamavano notizie, e tutto sommato il popolo rigattiere se le merita. Non un racconto però, quello è roba da europei che non hanno ancora capito bene che nel postmoderno una cosa come il racconto (la coerenza, la cronologia, l’unità di spazio e tempo) ce la dobbiamo scordare; tanto più che qui è la terra del fasfù, e quindi si va per flash.


Aereo. Al check-in la tipa (una spagnola) ci dice che “l’aereo è bloccato” (primo pensiero: “a che ora sarà la prossima navetta per Milano Centrale?”). Poi si corregge: i posti sono bloccati, perché l’aereo è vuoto, e quindi per questioni di bilanciamento i passeggeri vengono sparsi. Così va meglio, e lo confermano anche sia Amicani, che dice che con meno gente è più difficile la claustrofobia, sia il principio di Newton per cui un aereo più leggero sta su meglio di uno pesante.

Comunque la notizia è che ferary se la cava eccellentemente, circoscrivendo il terrore al decollo e all’atterraggio, e ronfando per le restanti otto ore. Merito particolare va ad Amichigo, che lo ospitava la notte precedente al volo, che lo ha portato a letto alle 3 e svegliano alle 6.15, dopo averlo imbottito di alcool per tutta la sera. Arrivato all’aeroporto carponi il sonno è stato facile anche senza aiutini chimici.

Arrivo. I classici tre giorni di pioggia battente, in una Chicago deserta, tra il puzzo di piedi di due argentini e un italiano in ostello prima e nel lettone a due in una residenza universitaria poi. Costo dell’operazione pernottamento: svariati milioni di bucks.

Cibo. Il pasto più sano della settimana (a parte la pasta di stasera generosamente cucinata da SiSì) è stato doppio cisburgher, doppia patatina fritta e doppia pinta. Ferary mette a segno la prima diarrea fulminante alla terza notte (onorando il nome di Chicagone), e – cosa su cui si pronuncerà la scienza a suo tempo – cacando un prodotto di qualità di gran lunga superiore a quello ingurgitato (si sospetta che tra lo sciacquone dell’International House e la cucina di Noodless ci sia un filo diretto).

Il campus. Esattamente come ve lo immaginate, pulito, ordinato e organizzatissimo. Situato un po’ in culo rispetto a downtown (tipo come stare a Buti e il centro è a Zurigo), ma comodamente servito da un trenino che passa ogni ora e che ti ciula 5 dollari tra andata e ritorno.

Personaggi Chicaghesi – selezione.

I nostri primi dollari sono andati a Nick Papadopolous (nome vero, o almeno spacciato per tale), il taxista greco-chicagone che ci carica all’aeroporto americano. Prima di partire litiga per un quarto d’ora con un nero senza denti che dirige il traffico dei tazzi al terminal 5, dicendo a noi di dire, qualora interpellati dal nero senza denti, che andiamo in due hotel diversi. Per fortuna il nero se la prende solo con lui e, creatasi ormai una fila di taxi di cui non si vede la fine dietro il nostro, riesce a convincere Nick a partire. Lui ci chiede da dove veniamo, e, sentito dire “Italy”, cerca una radio con musica russa e ci guarda tutto soddisfatto (il nesso tra le due cose purtroppo non è uscito dalle sue sinapsi). Costo dell’operazione: 42 dollari, da lui stesso arrotondati a 50.

Wayne Hudston (o Huston). Non è un personaggio comico, ma a lui devo un tributo particolare perché è stato buonissimo con me. Bancario afro-americano (e forse buddista, a giudicare da una statuetta nel suo ufficio) cui ho chiesto aiuto visto che né la carta né il bancomat mi permettevano di prelevare. Lui, che lavora nella banca nel grattacielo più alto d’america, anziché mandarmi a cagare (di nuovo) mi dedica un sacco del suo tempo prezioso, in due giorni diversi, e cerca in tutti i modi di farsi capire. Alla fine non sono riuscito a prelevare, ma in compenso ho aperto un conto alla sua banca. Grazie Wayne Hudston (o Huston).

Rachel. Un budellaccio sfatto. Vedi la categoria: Così finisce il sogno americano.

Barak Obama: un altro immigrato del luogo, che vive 4 strade a nord da dove viviamo noi, e che al momento va per la maggiore.

La spesa. Non s’è ancora capito come si faccia, ma s’è capito che la storia dei prezzi bassi in America è una stronzata. Il fatto che l’euro è forte serve giusto per non essere costretti a sopravvivere a bucce di patate. La frutta è meravigliosa, bellissima, lucente, anabolizzata (c’è di buono che quella non si sa quanto costa perché c’è scritto il prezzo per libbra, e noi cosa sia una libbra non lo sappiamo). C’è pure un meccanismo che annaffia costantemente frutta e verdura con una piacevole nebulizzazione, cosa, per noi di provincia, a dir poco meravigliosa. Però, osserva SiSì, economista ed economo, “L’acqua pesa, e tutta quella verdura bagnata costerà il triplo” (seguono 5 minuti in cui SiSì scuote la verdura in mezzo al supermercato per farne fuoriuscire la truffaldina annaffiatura). Il pollo è arancione.

La fine del sogno americano. Certo, questa terra meravigliosa nasconde anche delle forti contraddizioni.

Tra queste la troia di Rachel, che aveva promesso un appartamento a Carlocò e poi glielo ha negato all’ultimo momento (mettendosi pure a tergiversare, a prendere tempo prima di dire definitivamente di no, perché non è che non voleva dargli l’appartamento, non voleva proprio che avesse un qualsiasi posto dove stare). [presto SiSì pubblicherà su queste pagine gli atti dei loro dissapori].

Tra queste l’impossibilità per Ferary di prelevare i suoi cazzo di soldi (devono aver capito che il credito cooperativo era roba di comunisti).

Tra queste la delusione più grossa. Non si può comprare l’i-phone.