"Conclusi gli ottavi di finale, sarebbe anche giunto il tempo di fare qualche bilancio" pensavo tritando le mandorle che avrei messo nell'insalata solo dopo averle tostate. "Ma come fare?" mi dicevo, pregustando il sapore dei conini gelato monoprix che avrebbero innalzato il livello della cena. "Non sono abbastanza preparato, non sto seguendo le partite con la dovuta attenzione, sto lavando la lattuga e l'unica cosa che posso fare è ascoltare la telecronaca, come farò, come farò?", insomma: tutto il repertorio classico del paranoico che non ha colto il senso di questa rubrica. È così che repentinamente - sentivo le rotelle girare in testa e il pomodorino rompere la sua sacca protettiva al contatto col coltello - ho pensato che una percezione così distratta non poteva essere il peggiore dei mali, doveva avere una sua ragione, e poteva essere sensato rifletterci un po'. Senza televisione, costretto a barcamenarmi tra i maxischermi dei pub parigini o il siabenedetto sito rojadirecta che trasmette le partite in streaming, la mia visione di questi mondiali è stata anch'essa clandestina: un professore di Pisa direbbe, con un espressione sulla cui bellezza lascio a voi il giudizio, "di sguincio". Quando guardi le partite in streaming il collegamento è quello che è, può saltare, andare a scatti, perdersi per poi ritrovarsi, ma soprattutto è plurilinguistico: se la qualità non è delle migliori hai tuttavia la possibilità di seguire la telecronaca di diversi paesi. Io ormai mi sono appassionato a quelle argentine, mentre onestamente mi sfugge il senso di quelle francesi (dopo il gol del Cile contro la Spagna, qualche giorno fa, gli intellettuali di tf1 hanno commentato testualmente "oh là là! c'est le temps des feuilles mortes!") (ora io mi chiedo: è necessario conoscere la storia della poesia mondiale per potersi godere una telecronaca?).
I telecronisti latinoamericani sono invece passionali e appassionanti: prediligono anch'essi l'uso delle metafore, ma sono metafore popolari, più alla portata di tutti: nella lotta senza requie del Cile contro il Brasile i commentatori se ne sono inventati di stupende, come quando verso l'85esimo hanno paragonato i giocatori cileni ai musicisti del titanic che continuavano a suonare mentre la nave affondava (a differenza dei commentatori francesi, qui il senso è chiaro e diretto e ti colpisce come una pallina da tennis quando sei a fondocampo che stai abbordando la tua compagna raccattapalle). D'altro canto sono gli stessi che durante le partite dell'Inter in Champion's League, quando la telecamera inquadrava la tipica espressione di Mourinho, dicevano che ha la faccia di uno che mangia sempre senza sale. Ci vuole del genio anche solo per pensarle, cose del genere. Non sarà un caso allora se quattro squadre su otto ancora in gara al mondiale sono sudamericane.
E però ancora non era abbastanza, mancava ancora qualcosa. Anche il chiasso latinoamericano non riusciva a rendere giustizia a quel piccolo miracolo che è in fondo il gol. Un gol non andrebbe sommerso di inutili chiacchiere, né sottolineato con ridondanti "o" che coinvolgono, sì, ma poi lasciano il vuoto dentro. Mi sembra evidente che il gol non ha a che fare con l'etica né con l'estetica, ma che appartiene a una dimensione ulteriore o più basilare, più primordiale, che ha a che fare se vogliamo più col religioso in senso ampio. Come spiegarmi: solo in maniera contingente si può attribuire il gesto che porta al gol a colui che in quel momento gli sta dando corpo, lo sta incarnando; ma il gol in sé è irriducibile alla dimensione umana, all'hic et nunc di una concrezione singolare. Esso dovrebbe essere accolto in maniera più adeguata, perché il gol è forse quell'unico tramite che può permetterci di avvicinarci a dio (al calciatore, a noi che lo guardiamo, persino al portiere che dovrebbe pensare: mi ha trafitto, ma così mi ha salvato). Immagino uno stadio intero intonare all'unisono un coro di vuvuzelas per poi, quando l'attaccante entra in area di rigore, zittirsi immediatamente per stare a contemplare l'evento. Gol.
E però ancora non era abbastanza, mancava ancora qualcosa. Anche il chiasso latinoamericano non riusciva a rendere giustizia a quel piccolo miracolo che è in fondo il gol. Un gol non andrebbe sommerso di inutili chiacchiere, né sottolineato con ridondanti "o" che coinvolgono, sì, ma poi lasciano il vuoto dentro. Mi sembra evidente che il gol non ha a che fare con l'etica né con l'estetica, ma che appartiene a una dimensione ulteriore o più basilare, più primordiale, che ha a che fare se vogliamo più col religioso in senso ampio. Come spiegarmi: solo in maniera contingente si può attribuire il gesto che porta al gol a colui che in quel momento gli sta dando corpo, lo sta incarnando; ma il gol in sé è irriducibile alla dimensione umana, all'hic et nunc di una concrezione singolare. Esso dovrebbe essere accolto in maniera più adeguata, perché il gol è forse quell'unico tramite che può permetterci di avvicinarci a dio (al calciatore, a noi che lo guardiamo, persino al portiere che dovrebbe pensare: mi ha trafitto, ma così mi ha salvato). Immagino uno stadio intero intonare all'unisono un coro di vuvuzelas per poi, quando l'attaccante entra in area di rigore, zittirsi immediatamente per stare a contemplare l'evento. Gol.