mercoledì, dicembre 15, 2010

C’è un nuovo obelisco a Piazza del Popolo. Una colonna di fumo nero e denso che invade tutta Via del Corso e va a mischiarsi allo smog, ai lacrimogeni e ai fumogeni. Il clima è avvelenato. Aria di casa per la gente di Terzigno.

L’apocalisse all’ora di pranzo. I giapponesi sono tutto uno scatto a perdifiato, e non di fotografie. Una sudamericana, invece, conversa con un’amica al telefono dell’ultimo litigio col fidanzato. Roba già vista per lei.

Orchi da Signore degli Anelli infilano, vestiti come finanzieri, Via del Corso e si accompagnano battendo i manganelli sugli scudi. Fanno paura e lo sanno.

I passanti si ammassano e si spaccano ed è un fioccare di voci controverse.

“Buffoni!”

“Andate a difendere i mafiosi! Difendete un mafioso!”

“Bravi! Ammazzateli!”

“Voglio il morto! Voglio il morto! Li voglio tutti morti, rossi di merda! Questa è la mia città, è la mia!”

“Fascio di merda!”

“Ve la prendete coi sedicenni! Vergognatevi!”

“Fate bene! Sono degli incivili!”

“Loro stanno lì anche per i tuoi figli!”

Gli animi si infuocano tanto quanto le camionette. La gente discute. E’ una serie di accesi confronti, coi pugni pronti in tasca. Il gelo prenatalizio ha salvato molti nasi, tra cui il mio.
Una signora si lamenta delle sue piante rovinate dai manifestanti. Io le dico che non tutti i manifestanti ce l’hanno con le sue piante. Lei dice che ha ragione lei, perché lei è andata a lavorare alle sei del mattino mentre io non faccio un cazzo… La persona che era con me la manda a fanculo.
E’ meno di un secondo: un secchio che vola, il filippino eroico che tiene fermo un pugno pronto per la mia faccia. Lo trascinano nel portone. La signora delle piante sa che è meglio darsi una regolata quando non si ha il filippino in regola. Un operatore dice che ha ripreso tutto, per rassicurarmi. Io gli guardo il berretto rosso con una A nera incerchiata. Capisco che non andremo lontano.

La cosa a cui tutti pensano è di tenersi una via di fuga, per non rimanere accerchiati dalle camionette che bloccano tutte le vie di uscita. Dei finanzieri si ritirano e dei passanti li seguono a suon di “Via, via la polizia!”.

Ma la gente ha paura, si vede. E’ un andirivieni di camionette, ambulanze, di celerini, finanzieri a scudi battenti. E per strada c’è vernice, macchie di sangue, fumogeni sfiniti, cestini e pali divelti e tantissime scarpe. Decine e decine di scarpe, perse da ragazzini ammanettati e trascinati via, lasciate a evocare le peggiori deportazioni.

Fa davvero paura camminare. Fa paura anche solo guardare.

La gente ha paura di sbagliare strada.

Lo scontro vero è a molte centinaia di metri di distanza, a Flaminio, ma in realtà anche qui tutti ci sono dentro e la tensione è alta come quel fumo nero.

Non è che un secondo, solo un secondo. Basta la corsa frettolosa di una ragazzina, per qualche motivo che sa solo lei, a creare il panico tra i passanti che si danno alla fuga. I negozi aprono e chiudono le saracinesche a ogni boato. Fa paura esserci.

Qualcuno deve prendere la metro a Piazza del Popolo, ma viene invitato a scegliere un’altra stazione: “Poi se vuoi, puoi andà a Piazza del Popolo e farte portà in Questura, vedi tu se te conviene!”.

La gente protesta. Ma che modi sono? Qui vogliono arrestare tutti!

Un altro operatore, senza berretto rosso questa volta, conclude in un accento bergamasco: “Se non ti piace, allora stattene a casa e non venire a protestare!”

“Ma tornatene in Padania, imbecille!”

Un esempio di perfetto contraddittorio.

Sono le quattro e mezzo. A Flaminio continua la guerra. Dei ragazzi e degli adulti corrono via dalle manganellate verso l'Ara Pacis. Il lungotevere è deserto, desolato, tutto lacrime e limoni, e qua e là qualche giornalista che ricuce sul portatile le riprese per il pezzo, seduto al tavolino di un bar a ferragosto.

Via del Corso, invece, è ancora piena di spettatori. Tanti sostano davanti a Piazza Colonna, che è inaccessibile.

Il Parlamento è ancora blindato, pieno di fiducia.

La gente guarda la schiera di poliziotti dall’altra parte della strada. Qualcuno li insulta, qualcuno li squadra con occhio torvo. Due si stanno misurando su chi dei due si fa di più il culo. Uno lavora al 118. L’altro avrà fatto una vita di sacrifici per mandare suo figlio a fare il soldato in missione internazionale. Quello che mi colpisce della loro discussione è che rivela come l’idea ricorrente in questo paese sia che , per avere diritto di parlare o semplicemente per poter rivendicare i tuoi diritti, “devi farti il culo”, cioè devi vivere al minimo dei tuoi diritti. Se hai un lavoro normale, pagato come si deve, con contributi cazzi e mazzi, cioè se godi dei tuoi diritti, devi tacere e vergognarti di parlare, perché a te il padrone ti tratta bene. Insomma prendi e scappa e non fiatare. Se ci pensate, è strana come idea di diritto. Ma i due non ci pensano e continuano una misurazione infinita dei tempi, modi, rischi del lavoro di ciascuno dei due. Io faccio l’unica foto della giornata.

La parola d’ordine ora è defluire. Bisogna defluire, defluire dove capita. Insomma non bisogna influire. “Defluire, defluire”. La gente defluisce verso casa, verso cena, verso i televisori accesi sugli speciali. Per defluire pian piano sulla poltrona, poi nel letto fino a defluire nel. No, non nella calma. Nel sonno.
Qui di calma ce n'è ben poca.

Comments

8 Responses to “ ”
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capo ha detto...

io penso alla miseria di tutto ciò: la miseria della riduzione di una manifestazione a violenza, al fatto che la sola violenza che si considera è quella di due cassonetti incendiati e due scritte sui muri e non quella che affaristi in doppiopetto consumano quotidianamente (e rispettabilmente) sulla pelle di tutti, a quella dei poliziotti che obbediscono a un gioco più grande di loro, a quella dei manifestanti che dimenticano talvolta di avere davanti delle persone e non dei simboli, a quella di alcuni esaltati che sfruttano la forza della massa - senza distinguo, senza criterio - per divertirsi senza preoccuparsi delle conseguenze e anzi come a dire: siete dei fessi. al fatto che dire che molti di questi sono (per ammissione stessa dei governi, per esempio fornito dalla storia) degli infiltrati non si può, perché sembra di fare la teoria del complotto. al fatto che, ad ogni modo, così si distrae l'attenzione da qualunque forma di partecipazione personale, pubblica, alla vita collettiva, e che la lezione che se ne trae è per molti: "meglio starsene a casa, va'". all'imbarbarimento indotto di un paese. e a tante altre cose, per cui ho ben poco di che rallegrarmi della giornata di ieri, ché questa non mi pare precisamente "vitalità".

15/12/10, 17:36
charlie ha detto...

Nessuna teoria del complotto. Cossiga docet. Repubblica riporta delle foto. E delle voci - e a Roma le voci sono quasi l'unica occasione di verità - dicevano già l'altroieri che il Parlamento era stato debitamente informato dei fatti che sarebbero accaduti. E visto che i provvedimenti non hanno seguito adeguatamente le previsioni, mi viene di pensare che siano state le previsioni a seguire i provvedimenti.

Dopodiché non mi piace il mito della violenza. Non mi piace vedere quaranta ragazzini bastonati e non mi piace vedere cinquanta poliziotti pestati.

io non voglio vivere nel terrore. io sono contento di essermi risparmiato gli anni di piombo. io voglio andare alla stazione, in banca, al caffé, sulla metro e non dover temere di poter saltare in aria.

Ma non mi piace il mito ipocrita della moderazione, dietro cui si cela la violenza dei partiti moderati e la mollezza e la paralisi cui vogliono educare la gente.

So che se posso fare certe cose è perché qualcuno ha combattuto per me. So che se il mio presidente del Consiglio può essere processato, è perché qualcuno ha combattuto per lui. So che se c'è un nero alla Casa Bianca è perché qualcuno ha combattuto per lui.

E questo va riconosciuto.

Possiamo mettere in dubbio la buonafede di chi lotta e di chi l'ha fatto ieri, possiamo sentirci estranei all'idea che c'è dietro. Possiamo provarne tristezza, e non poca. Ma questo non può trasformare qualsiasi forma di lotta in uno stato patologico di partecipazione.

Il mio filosofo diceva che la necessità e la violenza sono la stessa cosa, senonché la necessità è per necessità e la violenza è per gioco.

Penso che non dovremmo sottrarci per moderazione a fare certe distinzioni.

"Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio.
E Gesù disse loro, Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose."

15/12/10, 19:56
neomi ha detto...

..io penso alle lacrime e ai limoni. E ai bar a ferragosto. E vorrei proprio vederla, quella foto.
[Grazie, mon ami]

15/12/10, 22:32
Anonimo ha detto...

Mi permetto.

Sono stata al centro del corte per circa sei ore, ssséi. Mi sono accodata al gruppo dei bolognesi, li ho trovati da subito organizzati, reattivi, un po' l'anima della manifestazione. Li ho trovati straordinariamente pronti a prenderle - le botte della polizia - e tranne qualche bottiglietta di liquido al limone e qualche limone tra i denti, tranne le sciarpe tirate su almeno quattro o cinque volte nei momenti "caldi" del percorso, non avevamo altro.
Non avevamo caschi, noi, i caschi li avevano i compagni dei Book Block, i caschi li avevano probabilmente lì davanti alla testa del corteo e poi, sì, li avevano gli esaltati e gli infiltrati, ma li avevano anche ragazze e ragazzi usciti di casa per una manifestazione pacifica - anche se di pacifico cori e striscioni avevano poco, e come può essere diversamente di fronte a queste condizioni? - ma certi che prima o poi, inaspettatamente, avrebbero dovuto difendersi dalle cariche dei celerini.

Quello che testimoniano le fotografie che ho deciso di fare e poi di pubblicare, è quello che voleva/poteva essere la manifestazione di martedì, ma che giustamente non è stata nel complesso. Purtroppo però, non riescono a dire la rabbia, la tensione, la paura esplose davanti a palazzo Madama alla notizia della fiducia.
Un boato ha attraversato Largo di Torre Argentina dove ancora si muoveva la coda del corteo mentre la testa era già avanti a picchiarsi con la polizia.
Un coro omogeneo e fortissimo, con uomini e donne che dalla strada si legavano a noi nei cordoni, qualcosa che si è ripetuto identico sul Lungotevere al momento del rientro in corteo dello spezzone degli aquilani - donne e uomini, ragazzi, anziani - che avevano da poco assaltato il palazzo della Protezione civile con uova e vernice - qualcuno ha parlato di bombe carta. Un'ovazione, un'esultanza pari solo alla rabbia, alla delusione per una manifestazione che ha occupato e bloccato Roma mentre dentro il Parlamento quegli uomini in doppiopetto giocavano a Risiko per conquistarsi un'Italia inesistente, una cartina con i segnalini degli incendi, delle battaglie dei suoi tesori virtuali.

Ecco, io a Roma, mentre bevevo acqua e limone respirando fumo e lacrimogeni, davanti all'ingresso di piazza del popolo, con la gente che applaudiva dalle finestre esponendo cartelli di ingiurie contro Berlusconi, ho cominciato a mettere in discussione tante convinzioni, ho pensato che avrei voluto essere anch'io in piazza prima dell'assalto della celere con gli autoblindo, che la prossima volta porterò il casco della moto, che se servirà mi costruirò uno scudo di gommapiuma, che la lotta è solo una, che in questa Italia, in questo tempo non c'è spazio per l'attesa, per la pazienza, per il pacifismo.

Non importa quel che si diceva in strada, sulla metro, in treno ieri, a giochi di potere fatti e a botte distribuite, non importa quel che penso della politica, quel che ho fatto nei partiti finora, la mia storia "istituzionale", non importa. Importa che eravamo centomila, importa che le mamme di Terzigno buttavano la spazzatura sulle autoblindo ferme nella zona rossa, importa che lo Stato stabilisca la zona rossa e la folla la invada, importa quel cartello alla finestra "Il futuro siete voi. Bravi", importano i cori, il baccano, importano i tanti vivi che ho visto in strada, la gente bloccata nelle auto e sui motorini in Via del Muro torto a causa nostra che ci dava coraggio, e importa anche chi ci disprezza, chi ci ha maledetto, importa esserci, fare, dire, urlare, importa far bruciare e aggredire, far paura, farci coraggio.

Quando ce vo' ce vo'

16/12/10, 10:42
Via Rigattieri ha detto...

un altro contributo alla discussione, interessante da molti punti di vista: http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/380235/

16/12/10, 20:32
Anonimo ha detto...

Anch'io ho un paio di suggerimenti di lettura: l'articolo di Dal Lago ieri sul Manifesto, quello di Bascetta oggi sullo stesso giornale. Tra l'altro m'è venuto in mente che la giornata del 14 è forse l'unica cosa che salva quel giornale dal crollo finanziario, perché quelli che c'erano e quelli che no, comunque, hanno ripreso un po' di fiducia. Per me non è necessario aggiungere molto all'Anonimo che ha scritto qua sopra. Se tutta quella gente ha avuto il coraggio di stare in piazza in quel modo, allora io mi sento già meglio.
Capo, ma non vedi che parli come fossi un parlamentare o un giornalista di repubblica? "L'imbarbarimento di questo paese"? Perché ti va di parlare da "classe dirigente"?

18/12/10, 09:47
capo ha detto...

ma l'imbarbarimento è "indotto", come dicevo: era dunque un modo di criticare quello stesso linguaggio. e comunque certo che parlo da classe dirigente, sono il Capo!

18/12/10, 10:54
charlie ha detto...

a me st'articolo di belpoliti non mi convince. La rivoluzione non è mai il movimento lineare di un fronte compatto con interessi e prospettive omogenei, questa è piuttosto la nostra immagine storica della rivoluzione non la rivoluzione nel suo accadimento. volendo andare più in là, potremmo dire che la rivoluzione è sempre una rivolta e comincia sempre con una rivolta su cui poi qualcuno innesta un pensiero guida che finisce per legare tra sé più rivolte e farne un moto unico, le rivoluzioni sono rivolte rivoluzioonarizzate, rielaborate. Non credo che chi scendeva in piazza duranmte la Rivoluzione francese o ai tempi della Comune di Parigi avesse un lucido progetto a lungo termine su quello che andava a fare.

18/12/10, 15:03