Succede più o meno come in Dieci piccoli indiani. A poco a poco, cadono tutti. Adesso tocca a me.
Parliamo spesso qui di quanto il cosiddetto mondo del lavoro sia diventato una pura utopia che ci respinge, come se fossimo dei batteri mortali per il sistema.
Dotati di aspirazione e conseguente titolo di studio in materie umanistiche, ci ritroviamo con due alternative possibili: una precarizzazione senza via d’uscita; una fuga verso altre realtà.
In entrambi i casi, nulla c’entra con il nostro percorso iniziale.
La nostra generazione ha sbagliato rotta ed è stata respinta dall’orbita terrestre, fuori, nello spazio cosmico.
Nel mio piccolo, essendo il meno dotato nel lavoro di ricerca tra tutti i miei compagni di studi, avevo capito fin da subito che la passione per la letteratura sarebbe rimasta, come diceva Fenoglio, niente più che l’appagamento di un vizio. E così sono fuggito altrove.
Dopo qualche anno nel mondo del lavoro, ho cominciato a pensare che la mia condizione di lavoratore a progetto sarebbe rimasta pressoché immutabile. Non era poi tanto male, in fondo.
Che cosa sarebbe accaduto il prossimo anno? Chissenefrega, pensavo. Io sono qui e faccio il mio lavoro. Il futuro continuava ad essere un pensiero fastidioso. Il presente, il precario presente, mi bastava (ovvio, avevo di che sfamarmi).
Poi, un bel giorno, il vecchio, implacabile giudice che io pensavo fosse sparito nei meandri dell’isola, è venuto a colpire proprio il sottoscritto. Ha spezzato la mia statuetta da indiano.
Non violentemente, ma sotto forma di una lettera: “Con riferimento ai colloqui intercorsi ed a conferma degli accordi intervenuti, ci è gradito comunicarLe la Sua assunzione presso la nostra Azienda con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal giorno…”.
Ecco, sono fritto, ho pensato. Il primo indiano di Viarigattieri ad essere fatto fuori.