NRC XXII - Il capitale umano

venerdì, gennaio 10, 2014





Per fortuna ogni tanto succede che persino nel cinema italiano (mainstream) accada qualcosa di diverso. 
“Il capitale umano” di Paolo Virzì credo sia essenzialmente questo: un’opera che, nel nostro cinema, si distacca da tutto quanto che sta girando finora. Nonostante, beninteso, i solidi ancoraggi alla narrazione, alla mescolanza (ma non perdizione) dei generi tradizionali, nonostante la mancanza di sperimentazione formale (ecco, se proprio dovessimo cedere allo sfiancante giochino dei “precedenti”, mi sembra che l’unico valido sia il sommo Pietro Germi). Anche tale aspetto è interessante: può un’opera d’arte, oggi, apparire differente sebbene, in superficie, non sovverta alcun meccanismo né inventi alcunché di nuovo?
Tralascio la sinossi, ampiamente riportata da articoli e trailer. E partirei dall’atmosfera: cupa, opprimente e inquietante anche nella morbida luce estiva o nel freddo cristallino. Al di sopra dei personaggi c’è un’ombra che non se ne va mai. Di contro, mi risulta ancora inspiegabile come Virzì sia riuscito a sposare questa visione oppressa della realtà con l’ironia sferzante, impietosa, con la quale manovra, perfidamente, ciascuno dei suoi personaggi. (ah, notazione imprescindibile: il film è diviso in capitoli, ciascuno con un suo protagonista).
Piantato al centro del film c’è un motore immobile. Il patrimonio. Un’entità incalcolabile, invisibile, da cui dipendono tutti (per attrazione o repulsione). Il patrimonio è rappresentato da Giovanni Berneschi, proprietario di un fondo di investimento, interpretato in maniera superba da Fabrizio Gifuni: è la rappresentazione più veritiera, mai caricaturale, e precisa di un uomo dell’alta finanza che il cinema ci abbia dato finora (bisognerebbe andare su sponda americana per trovarne uno del pari livello: ma lì la forma mentis e la persino la gestualità del mondo economico sono differenti).
L’aspetto geniale della struttura è che al grande speculatore, pur essendo il fulcro tematico e narrativo, non viene dedicato un capitolo: praticamente, non abbiamo accesso al suo mondo interiore. Questo perché Giovanni Berneschi si colloca in una dimensione "ulteriore" rispetto ai suoi compagni in scena: la sua intelligenza assoluta della realtà lo porta a prevedere e a capire tutto in anticipo. La sua solidità inscalfibile si fonda sul rispetto e sull'aderenza perfetta a due “codici” (“orlandianamente” parlando…), quello familiare e quello finanziario.
Per ambire al patrimonio, o per tentare di sfuggirgli, i restanti personaggi si producono in disegni fallimentari, frustranti. Con l’unico risultato di andarsi a infrangere proprio contro i due codici di cui sopra: l’uno, quello delle relazioni familiari, spezzandolo nei modi più disperanti e drammatici; l’altro, quello dell’agognata ascesa sociale… beh, dipende un po’ da come leggerete voi il film…
Infine, una breve considerazione, che non so quanto peso abbia nella voragine oscura che Virzì ha spalancato. Esiste, nel film, la possibilità di uscire da questa dinamica folle. Eppure questa felicità deve necessariamente vivere al di fuori dell’osservanza di questi codici. È una possibilità fragile, “deviata” dalla legge del padre e del patrimonio, ma è l’unica che sembra vera e che abbia una possibilità di sopravvivere.

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