il natale dei rigattieri

giovedì, dicembre 25, 2014

Ho fatto gli auguri di Natale a qualche rigattiere. L'ho fatto al modo dei rigattieri, e penso che anche le loro risposte dicano qualcosa di ciascuno di loro. Avevo deciso preventivamente che avrei inventato la risposta di almeno uno di loro, per giocare sull'effetto comico del post: non ce n'è stato bisogno.

SMS DI AUGURI DEL CAPO: 

Pesante


SMS DI RISPOSTA

Ciccì: E inzomma…

Lanz: Pesantissimo

Ferari: Vero.

Bezzina: Vero.

Mheo: Parecchio

Happy: Lo so. Ma Natale è Natale. Sò pesi che dobbiamo portare. Augurerrimi.

Maurinho: Eh già… sono raffreddato.

Genni: Cosa?


p.s.: non posso non riportare questo omaggio che la dice lunga (non solo) sulla mia militanza cinefila, e di cui ringrazio moltissimo l'omaggiatore 

"Ho trovato oggi un VHS con gli inizi di vari film. Penso fosse la tua azione di correzione culturale per i miei canonici 5 minuti di ritardo al cinema. Una testimonianza degli esordi. Buon Natale!
(il vhs non è "A spasso con Daisy")


Fare di via rigattieri un museo internazionale

lunedì, novembre 24, 2014

Periodicamente ritorna. Ora però che ci siamo fatti una posizione, che lavoriamo, che abbiamo messo da parte dei risparmi, che FraLanz ha persino figliato (il che meriterebbe un post a parte), possiamo finalmente fare l'investimento di cui parliamo da anni. Comprare via rigattieri e creare il primo museo  internazionale dello studente lagnuso. Dobbiamo adeguarci: è finito il tempo dell'impegno. Se qualcuno pensava che Via Rigattieri potesse essere una nuova Via Panisperna, ebbene le nostre esistenze sono lì a provare che noi rappresentiamo l'avanguardia della nuova Italia che avanza, quella basata non già sull'ingegno, men che mai sull'impegno, diciamocelo pure: sul bisogno. Siamo la nuova Italia basata sul bisogno di non fare un cazzo (inspiegabilmente non sancito dalla costituzione). 

Lascia perdere che uno s'arrabatti per trovare du lire, la questione è filosofica: dovremmo smetterla con questo finto ritegno che coincide di fatto con un appiattimento sui valori (piccoli piccoli) del secolo scorso. Noi siam di quella razza che ancora s'ha da inventare, dovremmo esserne orgogliosi. Invece, quando questa diventerà (com'è evidente) maggioritaria, saremo lì a recriminare, ma non potremo che rimproverare la nostra ignavia. Or bene: vogliamo forse lasciare al degrado questa situazione? 

Dico io: dov'è finita la lavatrice? Io l'avevo lasciata lì. Esattamente da qui ho assistito – e registrato – all'annuncio della prima gravidanza rigattierica. Vogliamo che quel rubinetto continui a pendere nel vuoto (non che il pavimento non abbia già ampiamente dimostrato la sua tenuta stagna, attenzione) o vogliamo fornirgli una vasca entro la quale non disperdere il suo flusso vitale? 


E il mio armadio? Quest'immagine non rende giustizia al senso di precarietà insito in quell'oggetto d'altri tempi, la cui particolare inclinazione faceva sì che non si chiudesse mai, permettendo quel sano ricambio di cui ogni panno riposto in ambiente accuratamente umido avrebbe bisogno. 


Potrei continuare a lungo, se non dovessi preparare la lezione su Hegel. Ma ci sono gli studenti che aspettano. (Anche questa la dice lunga: gli studenti aspettano me che invece di preparare la lezione su Hegel sto qui a scrivere sul museo internazionale dello studente lagnuso). E certo questo mi fa pensare a quando le mie rinomate lezioni si svolgevano tra queste mura: come non pensare che questa, che è passata alla storia come la seconda abitazione lanzesca, fu teatro dei miei primi videosaggi in cui introducevo alla fenomenologia un giovane logico pentito? I caffè filosofici e quant'altro erano ben di là da venire: e qui si sperimentava già. E dov'è finita allora la libreria con i preziosi volumi del nostro?


Signori, qui si gioca con la storia. Che è storia non soltanto della città di Pisa, è storia d'Italia. Dietro l'apparente anonimato di questa piantina (già stravolta nel concetto: un nuovo bagno riducendo il corridoio e la mia stanza? Ma dove diavolo pensate di fare i pranzi di natale, scusate?) si cela una delle vicende più ingloriose di questo paese. Da lì sono passati navigatori e santi (come altro definireste gennaro?), poeti e prostitute, eroi (pensate a betti, scopritore delle nuove asie) e pensatori di fama interregionale.


Ora io penso che sia un'occasione da non perdere. Pensateci: in due mesi abbiamo raccolto 40.000 euri per un treno che portava da nord a sud per sostenere una candidata alle elezioni regionali. Quanto ci staremmo a fare una colletta un po' più ampia per realizzare un grande sogno? Ma voglio rivolgermi anche direttamente ai politici che oggi amministrano la città di Pisa. Pensate davvero che questo non sia un patrimonio da preservare, quando poi vi vantate pubblicamente dei film di Roan Johnson? Signora Giunta di Pisa, si metta una mano sul cuore e ci rifletta un attimo. Sono almeno 15 anni che gioca con l'edificio dirimpetto, quello bruttino pieno di mattoni che continua a tenere chiuso. Perché non mette fine al giochino, lo vende come è chiaro che voglia fare da 'na vita, e investe in questa grande operazione culturale?


Signora, è a lei che mi rivolgo. Qui sotto, in quest'angolo, una pisciatina 'un s'è mai negata a nessuno. E pensi a quanti secchi d'acqua avremmo potuto lanciare! E invece mai: sempre secondo uno spirito d'accoglienza di cui lei, Signora, dovrebbe farsi vanto. Lei come la signora Fosca, gran signora quella sì, che anche lei stoicamente resiste al degrado civile e morale di questo paese sanza far motto, o al limite gridando un po', ma solo per non far sentire l'abbandono. Un abbandono, Signora mia, che davvero corrisponderebbe al peggior non voler sentire del peggiore dei sordi.


NRC XXIV – Il giovane favoloso

venerdì, ottobre 31, 2014





Questa è una recensione che scrivo di getto senza stare a riflettere molto sulla successione logica degli argomenti. La scrivo di filato perché ho amato moltissimo questo film. È stato prima di tutto un atto di folle coraggio. Scrivere, girare, interpretare oggi un film su Giacomo Leopardi è un’azione che va oltre la spregiudicatezza. Perché il rischio è il ritratto da cartolina, oppure la riduzione alla fiction all’italiana. E poi perché immaginare di dare una forma compiuta alla vita e alle opere di Leopardi è, oggettivamente, una sfida quasi impossibile da superare. Martone invece è riuscito a fare un film bellissimo, pieno di un furore intellettuale che trova una sua felicissima soluzione nella fotografia meravigliosa, perfetta di Renato Berta (le finestre assolate di Recanati, la Napoli oscura del colera…la traduzione lieve della paesaggistica ottocentesca in pellicola...). Dentro questo film troviamo una miniera sterminata di temi, dalla minuziosa nota biografica per arrivare alle vorticanti, visionarie “rappresentazioni” dei Canti, delle Operette. Non solo, ma una cosa che sinceramente non mi aspettavo di veder rappresentata così nel dettaglio è la vicenda intellettuale e politica di Leopardi, stretto e incompreso nelle vicissitudini filosofiche e politiche dell’Italia pre-unitaria: inclassificabile sia per l’humus tradizionalista d’origine sia per gli entusiasmi “liberali”; una scheggia impazzita. Qui ritroviamo il meglio del Martone di Noi credevamo, la narrazione non-epica ma veritiera delle nostre origini (ed è incredibile rendersi conto di come oggi soltanto uno sappia mettere le mani così straordinariamente bene nelle viscere del nostro Paese, in una maniera non scontata, non calligrafica). 
Infine, ultima nota ma non si potrebbe evitare di sottolinearlo: Elio Germano è un attore sovrumano, inclassificabile, di una potenza espressiva che non ha eguali nel cinema di oggi (cioè, dobbiamo andare a scomodare mamasantissima ben più blasonati) e che si stacca in volo dai suoi pur eccellenti comprimari (perché anche questo bisogna dirlo: Binasco, Popolizio, Riondino e tutti gli altri son gente che dovremmo vedere quotidianamente sul grande schermo, non una volta ogni Martone, rimpiazzando quei cani senza via di riscatto che ammorbano le commedie e i drammoni fotocopia del nostro cinema).

Non so come spiegarvelo, ma a vedere la Ginestra sul grande schermo tra gli spazi siderei e i rivoli solidificati di lava, scusate, mi sono commosso.

e comunque

lunedì, ottobre 27, 2014


E comunque io fonderei un partito, non tanto per vincere le elezioni, più per vedere l'effetto che fa: ad esempio per vedere chi mi viene dietro, e in particolare tra gli intellettuali o gli uomini di spettacolo. Cosa succede nella mente degli intellettuali o degli uomini di spettacolo quando decidono di esprimersi in favore di un nuovo partito? Probabilmente anche loro pensano che sia un po' un salto nel vuoto, perché in fondo non sai come sarà quel nuovo partito, ma che comunque è importate compiere un gesto che è necessario per smuovere un po' le cose. Insomma: ci credono, anche a rischio di figure di merda colossali. Ma io invece vorrei capire cosa succede nella mente di chi ha fondato un partito e che si vede questa sfilza di intellettuali o uomini di spettacolo che gli vanno dietro, cosa pensa realmente. Voglio dire: non è che se poi Cristina D'Avena fa una dichiarazione in tuo favore tu puoi sconfessarla o dire che ti aspettavi più Francesco Guccini o Pietrangelo Buttafuoco. Te la devi accollare, Cristina D'Avena. 

NRL XI - Stoner

domenica, settembre 28, 2014



Come sempre, se questa fosse una rubrica letteraria seria, bisognerebbe parlare di questo libro in altri termini. (Ad esempio facendo riferimento alla sua storia editoriale di libro scomparso, riapparso, divenuto un caso, letto, riletto e divenuto un cult, oppure ricordando che l'ha letto anche Buffon). Quello che invece mi sembra stupefacente, e raro, è il fatto di essere arrivato a questo libro quasi per caso – e di aver subodorato che altri rigattieri lo avevano letto, ma non mi avevano detto niente. Non stiamo certo parlando del nuovo Dostoevskij. Ma non mi pare nemmeno secondario il fatto che la vita dimessa di William Stoner abbia il potere di vincere tutte le sirene della contemporaneità che fagocitano la tua attenzione e riesca a ridarti il senso di che cos’è l’immersione in un romanzo. La voglia di leggerlo di continuo, anche camminando per strada. Non mi accadeva da tempo, dunque volevo dirvelo, e invitarvi a leggerlo. Volevo dirvi anche, per non tenere un discorso fino in fondo, che il libro è tradotto (molto bene) da Stefano Tummolini, che conoscevo come regista cinematografico; e che a pagina 257 c’è un errore bizzarro: i curatori dell’antologia Loomis e Willard passano per essere i suoi editori (evidente anglicismo di distrazione). Volevo anche dirvi che per uno di quegli strani casi della vita proprio ieri, prima di finire il libro, ho rivisto Il vangelo secondo Matteo; che ho pensato che non avevo mai fatto caso allo straordinario uso che Pasolini fa di alcune musiche in molte parti del film; che una di queste musiche si chiama Sometimes I Feel Like a Motherless Child (ed è molto famosa); e che proprio questa canzone in qualche modo farebbe da perfetta colonna sonora anche alla lettura di Stoner di John Williams. 

p.s.: se qualcuno si illudeva che questo blog fosse morto, trallallero trallallà.  

NRL X - Il conte di Montecristo (cap. LXXXVIII, "La notte")

venerdì, febbraio 07, 2014



Superata p. 700, i fili del labirintico progetto di Dantès vengono a restringersi sempre di più, fino ad incappare in un nodo imprevisto e terribile - tra i vari possibili esiti della sua vendetta implacabile -, il duello mortale contro il figlio di Fernando.
L'ira viziata, custodita, alimentata da quindici anni arriva a concepire un disegno sovrumano. Dantès si arroga il ruolo di incarnazione della Provvidenza, confliggendo contro un tabù prima di tutto umano: innalzare se stessi al di sopra della dimensione umana, attribuirsi il ruolo di mettere a segno l'imperscrutabile (reale?) volontà divina.
Prima che egli commetta un simile sopruso contro natura, riceve nel suo palazzo l'inattesa visita della signora de Morcerf, cioè di Mercedes: l'amore dalla cui privazione Dantès ha patito un dolore folle (che, per quanto si sforzi l'autore, non si avvicina mai all'intensità con cui viene resa l'altra perdita, quella del padre: l'infamante morte del genitore è vista più come un'aggravante della condotta dei suoi aguzzini; nella donna perduta stava invece la promessa della futura felicità).
In questo capitolo intriso di patetismo il personaggio di Mercedes ruba la scena e anticipa la rivelazione decisiva: pronuncia il nome di Edmondo. E' un nome che anche il lettore aveva dimenticato, tra le scorribande mediterranee, le avventure romane, le mirabilia parigine, smarrito nella ridda di personalità multiple interpretate da Dantès.
A sentire quel nome, il suo vero nome, l'identità leggendaria e paurosa del "conte di Montecristo" perde qualunque consistenza e si riduce a ciò che è nella realtà: la maschera di un fantasma. Ricondotto alla sua identità originaria, Dantès constata l'insufficienza del suo disegno di vendetta e la sua volontà demoniaca s'incrina irreparabilmente. Da questo punto in avanti, grazie all'intervento di Mercedes, il romanzo cessa di essere la storia di una vendetta per assumere i contorni di una storia di salvezza, quella dell'anima di Dantès.

(il romanzo è frutto della letteratura seriale del suo secolo. Prodotto di consumo, molto largo. Eppure ci ha consegnato una serie di accortezze narrative che sono ancora oggi utilissime per chi scrive grandi archi narrativi - in letteratura o per immagini. La critica postmoderna ha condannato senza pietà lo stile e ne ha fatto oggetto di affettuosa presa per il culo - una simpatica anticaglieria da osservare con la sostenuta puzzetta sotto il naso tipica dei postmodernisti: ma un giorno potremo dire che in quella massa di scritti che ci ha avvelenato le bibliografie e i pozzi artesiani degli studi umanistici c'è una quantità pazzesca di corbellerie... Perchè la trama era inverosimile. Sì, certo, è inverosimile. E' un'opera di finzione. Come se ancora oggi dovessimo analizzare in sede critica, e prendere sul serio, le giustificazioni di un re greco che, partito vent'anni prima per una guerra, torna a riprendersi il trono, come se niente fosse, adducendo come scusa per il ritardo dei mostri marini, un popolo di giganti con un occhio solo, una musa che s'è scopazzato per anni, un paio di naufragi inverosimili e una popolazione squisita, guarda davvero gentilissimi, che gli ha allungato del fumo veramente buono, ma così buono che non si ricordava più la strada di casa).

Winner Taco: la teoria del complotto

sabato, gennaio 18, 2014



Italia, anno 1999: La casa produttrice di gelati Algida viene acquistata da Unilever, una delle più grandi aziende di distribuzione del mondo. Nello stesso anno, Algida decide di fermare la produzione del più buon gelato confezionato mai prodotto: il Winner Taco. Un caso? Noi crediamo di no. Tutti volevano il Winner Taco. Il Winner Taco era il gelato più popolare al mondo. Il Winner Taco era il gelato del popolo. 


Anno 2001: Unilever inizia a riempire i bar e i supermercati con un altro gelato: il Magnum. Il Magnum non è un gelato come gli altri. Il Magnum è mutevole. Il Magnum cambia forma. Il Magnum trasforma continuamente i gusti della borghesia. Molte forme di Magnum vengono commercializzate in edizione limitata. Con il Magnum, il gelato modifica la sua essenza: da fonte di bontà e gioia, esso diventa un surrogato di vuota bellezza, da possedere e non più da godere. Il gelato diventa status symbol. Il Magnum non è il gelato del popolo, anzi odia il popolo, e il popolo è sull’orlo di un precipizio… ma ancora non lo sa.

Pisa, 2005: in un post che solo apparentemente parla d’altro, ViaRigattieri butta lì un commento, che sembra non c’entrare proprio un bel niente. Il commento dice: “io non lascerei sotto silenzio neanche la scandalosa questione dei winner taco...”. ViaRigattieri sapeva. ViaRigattieri si era accorta di tutto. Perché ViaRigattieri non è solo longeva: ViaRigattieri è anche lungimirante. La tattica ci era ormai chiara: erodere dall’esperienza del gelato tutta la felicità possibile, per scatenare una crisi economica senza precedenti. ViaRigattieri non poteva fare di più per avvisarvi: eravamo (allora come ora) troppo controllati. Dovemmo rintanarci nel nostro umido attico seminterrato, e attendere lì l’inevitabile. 

Mondo, 2008-2013: Questi sono stati anni oscuri, cari miei. Anni oscuri come il Magnum Double Chocolate. Il popolo, privato di ogni croccante felicità biscottosa, si è piegato al ricatto del naming e del packaging. Magnum Temptation, Magnum Essence, Magnum Infinity… Si sono inventati di tutto per metterci in mano quello stupido bastoncino di legno, metafora di tutto quello che siamo stati costretti a ingoiare in questi anni – da una parte e dall’altra del nostro apparato digerente. Abbiamo toccato il fondo. Ma poi qualcosa si è mosso. Al popolo si può togliere la felicità, non certo il desiderio di essere felici. Il nostro messaggio, lanciato così in un commento, come fosse per caso, si è finalmente diffuso fra i molti che ancora ricordavano l’antica felicità. Esso è diventato il baluardo di un mondo nuovo e nuovamente possibile. Alla fine il dissenso si è trasformato in rivalsa. “Ridateci il Winner Taco!” si sentiva dire da sempre più parti. La voce del popolo tornava a farsi sentire. Una voce che non poteva più rimanere inascoltata. 

Italia, 2014: Dopo tanti rumors, finalmente è ufficiale: stiamo uscendo dalla crisi! Negli ultimi mesi si erano già manifestati i primi segnali di ripresa: lo spread in discesa, il Mago Otelma che si laurea in filosofia, io che trovo un nuovo lavoro… Poi, finalmente, l’annuncio ufficiale: il Winner Taco tornerà presto nei bar, nei supermercati, sulle spiagge. Dovunque vogliate cogliere un briciolo di felicità, lì ci sarà un Winner Taco ad aspettarvi! Il ciclo del Magnum, il ciclo della finzione e della crisi, si è chiuso. Finalmente il popolo riavrà la sua felicità. Finalmente il popolo riavrà il suo Winner Taco!

NRC XXIII - American Hustle

domenica, gennaio 12, 2014


Poniamo che tu non abbia visto Ocean’s eleven, Ocean’s twelve eccetera eccetera. Poniamo che tu faccia parte di quella sfortunata parte della popolazione, che magari si crede anche a modo suo nel giusto (diciamo: di quelli del bene) avendolo fatto. Ecco allora che potrai cascare nel gioco di American Hustle, o insomma, trovartici a tuo agio. Perché diciamoci la verità: 135 minuti per quello che ci ha mostrato sono un po’ troppi. Non che tu regista sia un incapace, intendiamoci. Anzi: ci è anche piaciuto il modo in cui hai diretto gli attori, facilitato certo dal trovarti tra le mani alcuni attori davvero bravi (Christian Bale, per dirne uno). Però secondo me – spoiler alert – se meni il can per l’aia per un’ora e mezza per andare a parare sulla mega truffa che questi devono fare per tirarsi fuori dall’impiccio, beh allora non capisco più che cosa abbiamo fatto nell’ora e mezza precedente. Voglio dire: non è che ‘sta truffa sia così potente che tu m’hai fatto aspettà un’ora e mezza in modo che io poi dica: me cojoni! È ‘na truffa buona, per carità, ma no da un’ora e mezza d’attesa. Tanto più che c’avevi ‘sti personaggi carucci, che era più interessante se me approfondivi per dire il rapporto tra Christian e la su dama, o persino toh tra Christian e la su moglie, altro personaggio aggarbo. Devo dì che non lo so perché, forse ti sei fatto prendere troppo dallo spunto di realtà che soggiaceva alla storia? Ti sei dovuto piegà a raccontarci la storiella? Peccato, perché era meglio quando te ne stavi pe i cazzi tua, che mi parevi più interessante, me ‘ntrigavi di più. Poi lo sai che sono un grande fan di Bob De Niro: che me lo metti là per due minuti come a dì “ce sta o nun ce sta”? Me sembra che me stai a pijà per culo. E guarda che io me n’accorgo. No? Peccato, perché c’avevo tante aspettative, a reggì. (Vogliamo sparà un po’ a zero sul doppiaggio? Mamma mia. Meno male che ce stavano li regazzini che parlavano con la torcia tutto il tempo, sennò capace che me girava er cazzo ancor di più). E vabbè la colonna senora, ma senora quando?

NRC XXII - Il capitale umano

venerdì, gennaio 10, 2014





Per fortuna ogni tanto succede che persino nel cinema italiano (mainstream) accada qualcosa di diverso. 
“Il capitale umano” di Paolo Virzì credo sia essenzialmente questo: un’opera che, nel nostro cinema, si distacca da tutto quanto che sta girando finora. Nonostante, beninteso, i solidi ancoraggi alla narrazione, alla mescolanza (ma non perdizione) dei generi tradizionali, nonostante la mancanza di sperimentazione formale (ecco, se proprio dovessimo cedere allo sfiancante giochino dei “precedenti”, mi sembra che l’unico valido sia il sommo Pietro Germi). Anche tale aspetto è interessante: può un’opera d’arte, oggi, apparire differente sebbene, in superficie, non sovverta alcun meccanismo né inventi alcunché di nuovo?
Tralascio la sinossi, ampiamente riportata da articoli e trailer. E partirei dall’atmosfera: cupa, opprimente e inquietante anche nella morbida luce estiva o nel freddo cristallino. Al di sopra dei personaggi c’è un’ombra che non se ne va mai. Di contro, mi risulta ancora inspiegabile come Virzì sia riuscito a sposare questa visione oppressa della realtà con l’ironia sferzante, impietosa, con la quale manovra, perfidamente, ciascuno dei suoi personaggi. (ah, notazione imprescindibile: il film è diviso in capitoli, ciascuno con un suo protagonista).
Piantato al centro del film c’è un motore immobile. Il patrimonio. Un’entità incalcolabile, invisibile, da cui dipendono tutti (per attrazione o repulsione). Il patrimonio è rappresentato da Giovanni Berneschi, proprietario di un fondo di investimento, interpretato in maniera superba da Fabrizio Gifuni: è la rappresentazione più veritiera, mai caricaturale, e precisa di un uomo dell’alta finanza che il cinema ci abbia dato finora (bisognerebbe andare su sponda americana per trovarne uno del pari livello: ma lì la forma mentis e la persino la gestualità del mondo economico sono differenti).
L’aspetto geniale della struttura è che al grande speculatore, pur essendo il fulcro tematico e narrativo, non viene dedicato un capitolo: praticamente, non abbiamo accesso al suo mondo interiore. Questo perché Giovanni Berneschi si colloca in una dimensione "ulteriore" rispetto ai suoi compagni in scena: la sua intelligenza assoluta della realtà lo porta a prevedere e a capire tutto in anticipo. La sua solidità inscalfibile si fonda sul rispetto e sull'aderenza perfetta a due “codici” (“orlandianamente” parlando…), quello familiare e quello finanziario.
Per ambire al patrimonio, o per tentare di sfuggirgli, i restanti personaggi si producono in disegni fallimentari, frustranti. Con l’unico risultato di andarsi a infrangere proprio contro i due codici di cui sopra: l’uno, quello delle relazioni familiari, spezzandolo nei modi più disperanti e drammatici; l’altro, quello dell’agognata ascesa sociale… beh, dipende un po’ da come leggerete voi il film…
Infine, una breve considerazione, che non so quanto peso abbia nella voragine oscura che Virzì ha spalancato. Esiste, nel film, la possibilità di uscire da questa dinamica folle. Eppure questa felicità deve necessariamente vivere al di fuori dell’osservanza di questi codici. È una possibilità fragile, “deviata” dalla legge del padre e del patrimonio, ma è l’unica che sembra vera e che abbia una possibilità di sopravvivere.

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mercoledì, gennaio 01, 2014