Per fortuna ogni tanto succede che persino nel cinema italiano (mainstream) accada qualcosa di diverso.
“Il
capitale umano” di Paolo Virzì credo sia essenzialmente questo: un’opera che,
nel nostro cinema, si distacca da tutto quanto che sta girando finora. Nonostante, beninteso, i
solidi ancoraggi alla narrazione, alla mescolanza (ma non perdizione) dei
generi tradizionali, nonostante la mancanza di sperimentazione formale (ecco,
se proprio dovessimo cedere allo sfiancante giochino dei “precedenti”, mi
sembra che l’unico valido sia il sommo Pietro Germi). Anche tale aspetto è
interessante: può un’opera d’arte, oggi, apparire differente sebbene, in
superficie, non sovverta alcun meccanismo né inventi alcunché di nuovo?
Tralascio la
sinossi, ampiamente riportata da articoli e trailer. E partirei dall’atmosfera:
cupa, opprimente e inquietante anche nella morbida luce estiva o nel freddo
cristallino. Al di sopra dei personaggi c’è un’ombra che non se ne va mai. Di
contro, mi risulta ancora inspiegabile come Virzì sia riuscito a sposare questa
visione oppressa della realtà con l’ironia sferzante, impietosa, con la quale
manovra, perfidamente, ciascuno dei suoi personaggi. (ah, notazione
imprescindibile: il film è diviso in capitoli, ciascuno con un suo
protagonista).
Piantato al centro
del film c’è un motore immobile. Il patrimonio. Un’entità incalcolabile,
invisibile, da cui dipendono tutti (per attrazione o repulsione). Il patrimonio
è rappresentato da Giovanni Berneschi, proprietario di un fondo di
investimento, interpretato in maniera superba da Fabrizio Gifuni: è la
rappresentazione più veritiera, mai caricaturale, e precisa di un uomo dell’alta
finanza che il cinema ci abbia dato finora (bisognerebbe andare su sponda
americana per trovarne uno del pari livello: ma lì la forma mentis e la persino la gestualità del mondo economico sono
differenti).
L’aspetto geniale
della struttura è che al grande speculatore, pur essendo il fulcro tematico e
narrativo, non viene dedicato un capitolo: praticamente, non abbiamo accesso al suo mondo
interiore. Questo perché Giovanni Berneschi si colloca in una dimensione
"ulteriore" rispetto ai suoi compagni in scena: la sua intelligenza assoluta della realtà
lo porta a prevedere e a capire tutto in anticipo. La sua solidità
inscalfibile si fonda sul rispetto e sull'aderenza perfetta a due “codici” (“orlandianamente”
parlando…), quello familiare e quello finanziario.
Per ambire al
patrimonio, o per tentare di sfuggirgli, i restanti personaggi si producono in
disegni fallimentari, frustranti. Con l’unico risultato di andarsi a infrangere
proprio contro i due codici di cui sopra: l’uno, quello delle relazioni
familiari, spezzandolo nei modi più disperanti e drammatici; l’altro, quello
dell’agognata ascesa sociale… beh, dipende un po’ da come leggerete voi il film…
Infine, una breve
considerazione, che non so quanto peso abbia nella voragine oscura che Virzì ha
spalancato. Esiste, nel film, la possibilità di uscire da questa dinamica
folle. Eppure questa felicità deve necessariamente vivere al di fuori dell’osservanza
di questi codici. È una possibilità fragile, “deviata” dalla legge del padre e
del patrimonio, ma è l’unica che sembra vera e che abbia una possibilità di
sopravvivere.
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