Winner Taco: la teoria del complotto

sabato, gennaio 18, 2014



Italia, anno 1999: La casa produttrice di gelati Algida viene acquistata da Unilever, una delle più grandi aziende di distribuzione del mondo. Nello stesso anno, Algida decide di fermare la produzione del più buon gelato confezionato mai prodotto: il Winner Taco. Un caso? Noi crediamo di no. Tutti volevano il Winner Taco. Il Winner Taco era il gelato più popolare al mondo. Il Winner Taco era il gelato del popolo. 


Anno 2001: Unilever inizia a riempire i bar e i supermercati con un altro gelato: il Magnum. Il Magnum non è un gelato come gli altri. Il Magnum è mutevole. Il Magnum cambia forma. Il Magnum trasforma continuamente i gusti della borghesia. Molte forme di Magnum vengono commercializzate in edizione limitata. Con il Magnum, il gelato modifica la sua essenza: da fonte di bontà e gioia, esso diventa un surrogato di vuota bellezza, da possedere e non più da godere. Il gelato diventa status symbol. Il Magnum non è il gelato del popolo, anzi odia il popolo, e il popolo è sull’orlo di un precipizio… ma ancora non lo sa.

Pisa, 2005: in un post che solo apparentemente parla d’altro, ViaRigattieri butta lì un commento, che sembra non c’entrare proprio un bel niente. Il commento dice: “io non lascerei sotto silenzio neanche la scandalosa questione dei winner taco...”. ViaRigattieri sapeva. ViaRigattieri si era accorta di tutto. Perché ViaRigattieri non è solo longeva: ViaRigattieri è anche lungimirante. La tattica ci era ormai chiara: erodere dall’esperienza del gelato tutta la felicità possibile, per scatenare una crisi economica senza precedenti. ViaRigattieri non poteva fare di più per avvisarvi: eravamo (allora come ora) troppo controllati. Dovemmo rintanarci nel nostro umido attico seminterrato, e attendere lì l’inevitabile. 

Mondo, 2008-2013: Questi sono stati anni oscuri, cari miei. Anni oscuri come il Magnum Double Chocolate. Il popolo, privato di ogni croccante felicità biscottosa, si è piegato al ricatto del naming e del packaging. Magnum Temptation, Magnum Essence, Magnum Infinity… Si sono inventati di tutto per metterci in mano quello stupido bastoncino di legno, metafora di tutto quello che siamo stati costretti a ingoiare in questi anni – da una parte e dall’altra del nostro apparato digerente. Abbiamo toccato il fondo. Ma poi qualcosa si è mosso. Al popolo si può togliere la felicità, non certo il desiderio di essere felici. Il nostro messaggio, lanciato così in un commento, come fosse per caso, si è finalmente diffuso fra i molti che ancora ricordavano l’antica felicità. Esso è diventato il baluardo di un mondo nuovo e nuovamente possibile. Alla fine il dissenso si è trasformato in rivalsa. “Ridateci il Winner Taco!” si sentiva dire da sempre più parti. La voce del popolo tornava a farsi sentire. Una voce che non poteva più rimanere inascoltata. 

Italia, 2014: Dopo tanti rumors, finalmente è ufficiale: stiamo uscendo dalla crisi! Negli ultimi mesi si erano già manifestati i primi segnali di ripresa: lo spread in discesa, il Mago Otelma che si laurea in filosofia, io che trovo un nuovo lavoro… Poi, finalmente, l’annuncio ufficiale: il Winner Taco tornerà presto nei bar, nei supermercati, sulle spiagge. Dovunque vogliate cogliere un briciolo di felicità, lì ci sarà un Winner Taco ad aspettarvi! Il ciclo del Magnum, il ciclo della finzione e della crisi, si è chiuso. Finalmente il popolo riavrà la sua felicità. Finalmente il popolo riavrà il suo Winner Taco!

NRC XXIII - American Hustle

domenica, gennaio 12, 2014


Poniamo che tu non abbia visto Ocean’s eleven, Ocean’s twelve eccetera eccetera. Poniamo che tu faccia parte di quella sfortunata parte della popolazione, che magari si crede anche a modo suo nel giusto (diciamo: di quelli del bene) avendolo fatto. Ecco allora che potrai cascare nel gioco di American Hustle, o insomma, trovartici a tuo agio. Perché diciamoci la verità: 135 minuti per quello che ci ha mostrato sono un po’ troppi. Non che tu regista sia un incapace, intendiamoci. Anzi: ci è anche piaciuto il modo in cui hai diretto gli attori, facilitato certo dal trovarti tra le mani alcuni attori davvero bravi (Christian Bale, per dirne uno). Però secondo me – spoiler alert – se meni il can per l’aia per un’ora e mezza per andare a parare sulla mega truffa che questi devono fare per tirarsi fuori dall’impiccio, beh allora non capisco più che cosa abbiamo fatto nell’ora e mezza precedente. Voglio dire: non è che ‘sta truffa sia così potente che tu m’hai fatto aspettà un’ora e mezza in modo che io poi dica: me cojoni! È ‘na truffa buona, per carità, ma no da un’ora e mezza d’attesa. Tanto più che c’avevi ‘sti personaggi carucci, che era più interessante se me approfondivi per dire il rapporto tra Christian e la su dama, o persino toh tra Christian e la su moglie, altro personaggio aggarbo. Devo dì che non lo so perché, forse ti sei fatto prendere troppo dallo spunto di realtà che soggiaceva alla storia? Ti sei dovuto piegà a raccontarci la storiella? Peccato, perché era meglio quando te ne stavi pe i cazzi tua, che mi parevi più interessante, me ‘ntrigavi di più. Poi lo sai che sono un grande fan di Bob De Niro: che me lo metti là per due minuti come a dì “ce sta o nun ce sta”? Me sembra che me stai a pijà per culo. E guarda che io me n’accorgo. No? Peccato, perché c’avevo tante aspettative, a reggì. (Vogliamo sparà un po’ a zero sul doppiaggio? Mamma mia. Meno male che ce stavano li regazzini che parlavano con la torcia tutto il tempo, sennò capace che me girava er cazzo ancor di più). E vabbè la colonna senora, ma senora quando?

NRC XXII - Il capitale umano

venerdì, gennaio 10, 2014





Per fortuna ogni tanto succede che persino nel cinema italiano (mainstream) accada qualcosa di diverso. 
“Il capitale umano” di Paolo Virzì credo sia essenzialmente questo: un’opera che, nel nostro cinema, si distacca da tutto quanto che sta girando finora. Nonostante, beninteso, i solidi ancoraggi alla narrazione, alla mescolanza (ma non perdizione) dei generi tradizionali, nonostante la mancanza di sperimentazione formale (ecco, se proprio dovessimo cedere allo sfiancante giochino dei “precedenti”, mi sembra che l’unico valido sia il sommo Pietro Germi). Anche tale aspetto è interessante: può un’opera d’arte, oggi, apparire differente sebbene, in superficie, non sovverta alcun meccanismo né inventi alcunché di nuovo?
Tralascio la sinossi, ampiamente riportata da articoli e trailer. E partirei dall’atmosfera: cupa, opprimente e inquietante anche nella morbida luce estiva o nel freddo cristallino. Al di sopra dei personaggi c’è un’ombra che non se ne va mai. Di contro, mi risulta ancora inspiegabile come Virzì sia riuscito a sposare questa visione oppressa della realtà con l’ironia sferzante, impietosa, con la quale manovra, perfidamente, ciascuno dei suoi personaggi. (ah, notazione imprescindibile: il film è diviso in capitoli, ciascuno con un suo protagonista).
Piantato al centro del film c’è un motore immobile. Il patrimonio. Un’entità incalcolabile, invisibile, da cui dipendono tutti (per attrazione o repulsione). Il patrimonio è rappresentato da Giovanni Berneschi, proprietario di un fondo di investimento, interpretato in maniera superba da Fabrizio Gifuni: è la rappresentazione più veritiera, mai caricaturale, e precisa di un uomo dell’alta finanza che il cinema ci abbia dato finora (bisognerebbe andare su sponda americana per trovarne uno del pari livello: ma lì la forma mentis e la persino la gestualità del mondo economico sono differenti).
L’aspetto geniale della struttura è che al grande speculatore, pur essendo il fulcro tematico e narrativo, non viene dedicato un capitolo: praticamente, non abbiamo accesso al suo mondo interiore. Questo perché Giovanni Berneschi si colloca in una dimensione "ulteriore" rispetto ai suoi compagni in scena: la sua intelligenza assoluta della realtà lo porta a prevedere e a capire tutto in anticipo. La sua solidità inscalfibile si fonda sul rispetto e sull'aderenza perfetta a due “codici” (“orlandianamente” parlando…), quello familiare e quello finanziario.
Per ambire al patrimonio, o per tentare di sfuggirgli, i restanti personaggi si producono in disegni fallimentari, frustranti. Con l’unico risultato di andarsi a infrangere proprio contro i due codici di cui sopra: l’uno, quello delle relazioni familiari, spezzandolo nei modi più disperanti e drammatici; l’altro, quello dell’agognata ascesa sociale… beh, dipende un po’ da come leggerete voi il film…
Infine, una breve considerazione, che non so quanto peso abbia nella voragine oscura che Virzì ha spalancato. Esiste, nel film, la possibilità di uscire da questa dinamica folle. Eppure questa felicità deve necessariamente vivere al di fuori dell’osservanza di questi codici. È una possibilità fragile, “deviata” dalla legge del padre e del patrimonio, ma è l’unica che sembra vera e che abbia una possibilità di sopravvivere.

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mercoledì, gennaio 01, 2014