Finisce la 50esima edizione del Festival dei Popoli di Firenze, il secondo festival che seguo nella mia vita, grande soddisfazione. Quando ho deciso - non ho deciso niente, è successo - di occuparmi di cinema, la spinta era principalmente quella dell'unire l'utile al dilettevole: troppo difficile la filosofia, non avrei saputo contribuire significativamente né studiarla 12 ore al giorno come si dovrebbe. A me piaceva andare al cinema. Ma ho sempre vissuto il cinema come otium vero e proprio: quando la professoressa di latino mi diceva che non potevo arrivare impreparato a scuola perché ero andato al cinema il giorno prima, non ero mai d'accordo. Ero andato al cinema, appunto, mica a giocare con gli aquiloni. (Per quanto anche giocare con gli aquiloni possa avere le sue implicazioni importanti). Insomma, per me il cinema è, oltre a un grande divertimento, una cosa molto seria. Per fortuna non sono l'unico: tante altre persone la pensano così, le stesse che danno una giustificazione "sociale" al mio studio. E quindi mi sono trovato a fare del cinema una cosa anche più seria di quanto non volessi: oggetto di studio, per l'appunto. Mi ritrovo quindi periodicamente a scrivere di cinema, ma mica per un motivo troppo serio: scrivo di cinema per poter andare al cinema. Cioè per avere una giustificazione (economica e) sociale per andare al cinema. Quindi, nello specifico, per essere pagato e poter andare al cinema; o per esempio per poter andare ai festival di cinema gratis, e vedere un sacco di film. Per fare questo talvolta devo poi veramente scrivere (per ottenere l'accredito al Torino Film Festival, ad esempio); talaltra sono più fortunato, come per questo festival fiorentino, dove l'accredito me l'hanno dato senza nulla in cambio. Che bello. Un gran regalo (come Torino, che era il regalo di laurea che mi sono fatto da solo). Ma insomma io non è che scrivo di cinema perchè ho cose intelligenti da dire, né perché ne capisca un granché: a me il cinema piace vederlo. Questo sì: sono un grande spettatore. Però - e non capisco perché - la società non ha ancora dato un ruolo allo spettatore disinteressato, quello che vorrebbe andare a vedere i film e poi tornare a casa, magari a vederne un altro. Lo spettatore che non contribuisce in nulla al progresso della società. Quello che, al limite, neanche ci ragiona troppo. That's entertainment!, o no?
Insomma, in attesa che venga riconosciuta una certa dignità anche a questa serie di persone di cui mi vanto di far parte, mi adeguo alle regole della stampa/studio/critica cinematografica. E allora, anche se non devo, per senso di colpa do un miniresoconto di questo festival, veramente strepitoso, con l'augurio che qualcuno di questi film possa circolare al di là dei circuiti specialistici.
Vince Defamation, dell'israeliano Yoav Shamir: un film molto potente, che prende spunto da una semplice domanda: che cos'è l'antisemitismo? La tesi del film - perché di film a tesi si tratta, per quanto coraggioso e più problematico di molti altri - è che oggi l'antisemitismo è innescato da, e funzionale a, l'establishment israeliano, lo stato di Israele e le lobby ebraiche, soprattutto negli USA. Vedere dal di dentro il funzionamento della statunitense Anti-Defamation League, potentissima organizzazione che si occupa di denunciare per l'appunto tutti i presunti casi di antisemitismo che succedono nel mondo, è agghiacciante. Ed è agghiacciante anche l'etichetta di negazionismo che viene affibbiata a chiunque osi contestare queste lobby e il loro legame con lo stato di Israele. La shoah usata come scudo, il senso di colpa come arma per difendere qualunque tipo di operazione militare e criminale dello stato di Israele vengono così denunciate con molta forza. Chi segue la storia del conflitto arabo-israeliano troverà confermate convinzioni che già gli appartengono, o si indignerà per l'utilizzo irriverente della macchina da presa che questo regista ebreo non allineato rivolge contro gli interessi del suo paese. Chi si interessa più nello specifico alla questione cinematografica, ritroverà echi alla Michael Moore che, al di là di ogni contenuto, di per sé possono risultare urtanti.
Petropolis di Peter Mettler è una splendida videoinchiesta sugli sfruttamenti delle sabbie bituminose nella zona intorno alla città di Alberta, in Canada; il film, quasi privo di commento, si compone di una serie di inquadrature aeree su queste vaste zone da cui sono stati estirpati gli alberi e dalle quali, tramite il pompaggio di acqua calda, viene separato il bitume dalla sabbia. L'effetto è visivamente straordinario: basti pensare che per 40 minuti il solo raccordo di queste immagini crea una storia appassionante, allarmata e coinvolgente. Siamo solo all'inizio dello sfruttamento delle sabbie bituminose in Canada; Greenpeace ha lanciato una campagna a livello mondiale perché il rischio è quello di trasformare in maniera irreversibile il suolo canadese e alterare così l'ecosistema mondiale.
To shoot an elephant di Alberto Arce è il secondo film che parla del bombardamento israeliano a Gaza tra il dicembre 2008 e il gennaio del 2009, l'operazione Piombo fuso che è già stata trattata dall'omonimo film di Stefano Savona (col quale questo film entra in qualche modo in polemica: polemiche che, sia detto una volta per tutte, non ci interessano minimamente). Il regista spagnolo ha seguito con la sua telecamera tutto il periodo del bombardamento israeliano che ha devastato case, ospedali, centri di rifornimento di cibo e medicine della striscia di Gaza. Piovono missili, bombe, proiettili, letteralmente, attorno alla telecamera di Arce: e il film è una denuncia fortissima di un'insopportabile occupazione che è tollerata dai paesi occidentali e di cui scontano le sorti principalmente gli inermi abitanti della striscia di Gaza. Il film è copyleft e può essere visto, scaricato, diffuso e anzi questo è l'intento principale del regista, affinché nessuno possa dire di non averne saputo niente.
Sahman di Harutyun Khachatryan è il film che più di tutti mette in questione il rapporto tra fiction e documentario; la macchina da presa segue la storia di una bufala, al confine tra Armenia e Azerbaijan, per mettere in discussione ogni legittimità, ogni valore (politico, storico, geografico) che si suole dare ai confini tra i paesi, ai rapporti tra popoli separati da piccole strisce di terra. Il film è senza dialoghi per 82 minuti: ed è impossibile dire a parole quello che Khachatryan fa con le immagini. Tutto è vero, ma non ha nessuna importanza: le immagini che documentano le fughe di questa bufala creano una storia bellissima, struggente e l'assenza di dialoghi non pesa affatto sull'equilibrio del film. Ahimé temo che non avrà una grossa diffusione, per cui se vi capita, correte.
Drottningen och Jag (The Queen and I) è il film che Nahid Persson Sarvestani, regista iraniana che ormai da anni vive in Svezia, ha realizzato sulla regina Farah, moglie dello Shah di Persia cacciato via dalla rivoluzione che mise al potere Khomeini. La regista stessa, comunista, prese parte alla rivoluzione, e dovette scappare dopo che il regime di Khomeini si rivelò amaramente come peggiore addirittura di quello dello Shah. Il fascino che l'imperatrice esercitava sulla regista adolescente rimane intatto, nel corso di questo rapporto tra due donne, esiliate, di opposte fazioni, che a trent'anni di distanza si scoprono più vicine di quanto non pensassero nell'amore per il loro paese. Film delicatissimo, che indaga al di là del gioco delle parti nell'intimo delle persone, e mette in gioco, pur nella distanza, due grandi umanità.
Chiudo qui il miniresoconto: aggiungendo solo che all'interno della rassegna The feeling of being there che raccoglieva sette anni di cinema documentario, dal 1958 al 1965, ho avuto modo di vedere l'incantevole ...A Valparaiso di Joris Ivens, e che durante la notte di venerdì è stato proiettato in anteprima assoluta La faccia della terra, film scritto e interpretato da Vinicio Capossela, che era anche presente in sala. Il film sarebbe anche visivamente interessante, se non fosse per Capossela, portato in trionfo sotto ogni aspetto, e davvero troppo ingombrante (come dire: fai il cantautore, non il romanziere o il cineasta).
Io comunque mi sono molto divertito, e ho avuto un'ulteriore conferma che non basta una macchina fotografica a fare un fotografo.
Comments
8 Responses to “dal vostro inviato a firenze”
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.........a me la foto piace tantissimo! Anche il post, ma soprattutto la foto.
08/11/09, 20:58Bravo Capotografo
Capo! sei una schiappa di fotografo! te l'ho già detto, tirandoti per la manica, mentre volevo che catturassi Vinicio e lo riducessi a mio giocattolino che suona e canta per una sera! mannaggia! Capo! sei proprio una schiappa! :-D
08/11/09, 21:20dicevo io, che non mi spiegavo come mai mi fosse venuta mossa quella foto... eri tu che mi tiravi per la manica! ecco perchè!
08/11/09, 21:23se i post sono troppo lunghi e complicati pg, che ormai è vecchio e triste, non li legge - fategliene di più corti e facili, please!
08/11/09, 22:22SPLENDIDO racconto sul cinema.. a un certo punto ho pensato che questo luogo di cazzeggio si fosse trasformata in una bella rivista online..
09/11/09, 13:22(tra parentesi, adesso so che il Capo è stato a Firenze..).
la foto è molto evocativa, benché lievemente mossa, ma giusto un pelino..
chi invece non può bazzicare non dico i festival, ma nemmeno i cinema (è vero, se ho messo su famiglia la colpa è solo mia, avete ragione), ieri sera è riuscito a vedere il BELLISSIMO public enemies di michael mann: jonny deep inarrivabile, regia superlativa, fotografia di dante spinotti commovente.
E comunque io l'ho sempre detto che "è impossibile dire a parole quello che [...] fa con le immagini". Insomma, ho molto gradito quel passaggio e poi anche in generale, la questione della "storia di una bufala": che sia grossa, che sia bellissima, che sia struggente....insomma, ho sempre detto anche quello: che il culone alla fine paga, anche se in fuga!
10/11/09, 15:00Sob!
...mi pare che anche stavolta abbiamo avuto la conferma della teoria del post.
12/11/09, 09:15il film è qui
07/12/09, 12:16http://www.imdb.com/video/imdb/vi2388526361/
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