a vent'anni dalla morte, un inedito di Sciascia
venerdì, novembre 20, 2009
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venerdì, novembre 13, 2009
M’è venuto in mente parlando col povero crobino (che mi chiedeva indietro mille euri di cui non vi sto a raccontare la storia) che è una vergogna che noi altri si discorra tanto e poi non si faccia mai nulla per fare qualcosa di concreto, non ci impegniamo mai in prima persona per creare nei fatti il mondo migliore di cui tutti ci riempiamo la bocca. Per questo avevo chiesto a Betty di lasciar perdere le sue sporche mille bucce e di buttarle con me in un progetto ambizioso, volto a creare un po’ di gioia in questo triste mondo. C’è altro che conti, oltre a cercare di creare della gioia in questo triste mondo? No, non c’è altro, garantisco.
Dunque il progetto era questo: fare una colletta per mandare me a passare natale e capodanno a Cuba. Ora che allargo la richiesta a tutti voi non servono mille euro a persona, basta anche meno, diciamo dueccinquanta a capoccia, se partecipate (partecipiamo, che anch’io metto la mia quota) tutti (un cinquemila carte, secondo i miei calcoli, poi più partecipate e più gioia ci sarà, naturalmente). In questo modo io potrei andare a sputtanare in senso letterale i vostri quattrini, facendo brindare alla vostra salute le più belle gnocche cubane con coppe ricolme del mio seme. Non siate piccoloborghesi, col ditino indice alzato e la falsa morale: nessuno di voi, sono certo, resterà attaccato allo sterco del demonio rinunciando alla possibilità, non sempre facile da incontrare, di creare felicità su questa terra.
Certo, vecchi sofisti, mi obietterete: tanto varrebbe dare i soldi agli africani che muoiono di fame (sempre la retorica degli africani che muoiono di fame, grigio e noioso ritornello di quelli che non si impegnano o delle mamme che vogliono far finire i broccoli ai figli: “Mica lascerai i broccoli? Ma lo sai che ci sono i bimbi africani che muoiono di fame?” “E che pensi, genio di una mamma, che se finisco i maledetti broccoli (ormai diacci) i bimbi africani poi stanno meglio, si sentono più sazi?”). Ma, vi rispondo domandando di rimando (e allitterando): cosa se ne fanno in Africa dei vostri cinquemila cheeseburger, quando non hanno acqua che non sia marrone? Cioè, quelli magari li mangiano volentieri, i cheeseburger, ma poi non è che se la passano tanto meglio, restano sempre mediamente molto infelici. Capite, l'unico modo per rendere questo mondo migliore, per fare la vostra parte di uomini sensibili e interessati e di sinistra, è quello di donare un piccolo obolo a Ferari, in modo che li unisca e li trasformi in gioia pura, con infinite ripercussioni, sempre cariche di gioia (la gioia dell'ultimo baluardo comunista, la gioia di tanti tegami e tanti barmen cubani, la gioia di airfrance, gioia, gioia che prolifera e si moltiplica, inno alla gioia). Cinquemila euri a cinquemila persone sono un sacco di gioiette inutili, ma cinquemila euri a me sono una gioia immensa, incalcolabile (lo dice anche Marx: la quantità si trasforma in qualità). Naturalmente anch’io contraggo impegno formale con tutti voi a divertirmi un sacco, che il vostro sacrificio non vada sprecato.
Certo, vecchi sofisti, mi obietterete: tanto varrebbe dare i soldi agli africani che muoiono di fame (sempre la retorica degli africani che muoiono di fame, grigio e noioso ritornello di quelli che non si impegnano o delle mamme che vogliono far finire i broccoli ai figli: “Mica lascerai i broccoli? Ma lo sai che ci sono i bimbi africani che muoiono di fame?” “E che pensi, genio di una mamma, che se finisco i maledetti broccoli (ormai diacci) i bimbi africani poi stanno meglio, si sentono più sazi?”). Ma, vi rispondo domandando di rimando (e allitterando): cosa se ne fanno in Africa dei vostri cinquemila cheeseburger, quando non hanno acqua che non sia marrone? Cioè, quelli magari li mangiano volentieri, i cheeseburger, ma poi non è che se la passano tanto meglio, restano sempre mediamente molto infelici. Capite, l'unico modo per rendere questo mondo migliore, per fare la vostra parte di uomini sensibili e interessati e di sinistra, è quello di donare un piccolo obolo a Ferari, in modo che li unisca e li trasformi in gioia pura, con infinite ripercussioni, sempre cariche di gioia (la gioia dell'ultimo baluardo comunista, la gioia di tanti tegami e tanti barmen cubani, la gioia di airfrance, gioia, gioia che prolifera e si moltiplica, inno alla gioia). Cinquemila euri a cinquemila persone sono un sacco di gioiette inutili, ma cinquemila euri a me sono una gioia immensa, incalcolabile (lo dice anche Marx: la quantità si trasforma in qualità). Naturalmente anch’io contraggo impegno formale con tutti voi a divertirmi un sacco, che il vostro sacrificio non vada sprecato.
Mi obietterete ancora, meschini: perché non ce li teniamo, i nostri soldi, e pensiamo ognuno a creare la propria gioia e a farla proliferare (anche se non mi sembrate dei tipi tanto egoisti da voler usare i vostri soldi per la vostra gioia)? La risposta è semplice: perché i vostri duecentocinquanta euracci non basteranno a fare la vita da nababbo (= più gioia) che invece farei io (in vostro onore). È il vecchio principio socialista, per cui l’unione fa la forza: voi con i vostri duecentocinquanta euri siete i soliti (= meno gioia), mentre io con tutti i vostri soldi ci vado a Cuba.
Vi pregherei per altro di fare in fretta, che sennò i prezzi degli aerei salgono (poi sotto le feste) e dopo vi tocca pagare di più per avere la stessa quantità di gioia.
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dal vostro inviato a firenze
domenica, novembre 08, 2009
Finisce la 50esima edizione del Festival dei Popoli di Firenze, il secondo festival che seguo nella mia vita, grande soddisfazione. Quando ho deciso - non ho deciso niente, è successo - di occuparmi di cinema, la spinta era principalmente quella dell'unire l'utile al dilettevole: troppo difficile la filosofia, non avrei saputo contribuire significativamente né studiarla 12 ore al giorno come si dovrebbe. A me piaceva andare al cinema. Ma ho sempre vissuto il cinema come otium vero e proprio: quando la professoressa di latino mi diceva che non potevo arrivare impreparato a scuola perché ero andato al cinema il giorno prima, non ero mai d'accordo. Ero andato al cinema, appunto, mica a giocare con gli aquiloni. (Per quanto anche giocare con gli aquiloni possa avere le sue implicazioni importanti). Insomma, per me il cinema è, oltre a un grande divertimento, una cosa molto seria. Per fortuna non sono l'unico: tante altre persone la pensano così, le stesse che danno una giustificazione "sociale" al mio studio. E quindi mi sono trovato a fare del cinema una cosa anche più seria di quanto non volessi: oggetto di studio, per l'appunto. Mi ritrovo quindi periodicamente a scrivere di cinema, ma mica per un motivo troppo serio: scrivo di cinema per poter andare al cinema. Cioè per avere una giustificazione (economica e) sociale per andare al cinema. Quindi, nello specifico, per essere pagato e poter andare al cinema; o per esempio per poter andare ai festival di cinema gratis, e vedere un sacco di film. Per fare questo talvolta devo poi veramente scrivere (per ottenere l'accredito al Torino Film Festival, ad esempio); talaltra sono più fortunato, come per questo festival fiorentino, dove l'accredito me l'hanno dato senza nulla in cambio. Che bello. Un gran regalo (come Torino, che era il regalo di laurea che mi sono fatto da solo). Ma insomma io non è che scrivo di cinema perchè ho cose intelligenti da dire, né perché ne capisca un granché: a me il cinema piace vederlo. Questo sì: sono un grande spettatore. Però - e non capisco perché - la società non ha ancora dato un ruolo allo spettatore disinteressato, quello che vorrebbe andare a vedere i film e poi tornare a casa, magari a vederne un altro. Lo spettatore che non contribuisce in nulla al progresso della società. Quello che, al limite, neanche ci ragiona troppo. That's entertainment!, o no?
Insomma, in attesa che venga riconosciuta una certa dignità anche a questa serie di persone di cui mi vanto di far parte, mi adeguo alle regole della stampa/studio/critica cinematografica. E allora, anche se non devo, per senso di colpa do un miniresoconto di questo festival, veramente strepitoso, con l'augurio che qualcuno di questi film possa circolare al di là dei circuiti specialistici.
Vince Defamation, dell'israeliano Yoav Shamir: un film molto potente, che prende spunto da una semplice domanda: che cos'è l'antisemitismo? La tesi del film - perché di film a tesi si tratta, per quanto coraggioso e più problematico di molti altri - è che oggi l'antisemitismo è innescato da, e funzionale a, l'establishment israeliano, lo stato di Israele e le lobby ebraiche, soprattutto negli USA. Vedere dal di dentro il funzionamento della statunitense Anti-Defamation League, potentissima organizzazione che si occupa di denunciare per l'appunto tutti i presunti casi di antisemitismo che succedono nel mondo, è agghiacciante. Ed è agghiacciante anche l'etichetta di negazionismo che viene affibbiata a chiunque osi contestare queste lobby e il loro legame con lo stato di Israele. La shoah usata come scudo, il senso di colpa come arma per difendere qualunque tipo di operazione militare e criminale dello stato di Israele vengono così denunciate con molta forza. Chi segue la storia del conflitto arabo-israeliano troverà confermate convinzioni che già gli appartengono, o si indignerà per l'utilizzo irriverente della macchina da presa che questo regista ebreo non allineato rivolge contro gli interessi del suo paese. Chi si interessa più nello specifico alla questione cinematografica, ritroverà echi alla Michael Moore che, al di là di ogni contenuto, di per sé possono risultare urtanti.
Petropolis di Peter Mettler è una splendida videoinchiesta sugli sfruttamenti delle sabbie bituminose nella zona intorno alla città di Alberta, in Canada; il film, quasi privo di commento, si compone di una serie di inquadrature aeree su queste vaste zone da cui sono stati estirpati gli alberi e dalle quali, tramite il pompaggio di acqua calda, viene separato il bitume dalla sabbia. L'effetto è visivamente straordinario: basti pensare che per 40 minuti il solo raccordo di queste immagini crea una storia appassionante, allarmata e coinvolgente. Siamo solo all'inizio dello sfruttamento delle sabbie bituminose in Canada; Greenpeace ha lanciato una campagna a livello mondiale perché il rischio è quello di trasformare in maniera irreversibile il suolo canadese e alterare così l'ecosistema mondiale.
To shoot an elephant di Alberto Arce è il secondo film che parla del bombardamento israeliano a Gaza tra il dicembre 2008 e il gennaio del 2009, l'operazione Piombo fuso che è già stata trattata dall'omonimo film di Stefano Savona (col quale questo film entra in qualche modo in polemica: polemiche che, sia detto una volta per tutte, non ci interessano minimamente). Il regista spagnolo ha seguito con la sua telecamera tutto il periodo del bombardamento israeliano che ha devastato case, ospedali, centri di rifornimento di cibo e medicine della striscia di Gaza. Piovono missili, bombe, proiettili, letteralmente, attorno alla telecamera di Arce: e il film è una denuncia fortissima di un'insopportabile occupazione che è tollerata dai paesi occidentali e di cui scontano le sorti principalmente gli inermi abitanti della striscia di Gaza. Il film è copyleft e può essere visto, scaricato, diffuso e anzi questo è l'intento principale del regista, affinché nessuno possa dire di non averne saputo niente.
Sahman di Harutyun Khachatryan è il film che più di tutti mette in questione il rapporto tra fiction e documentario; la macchina da presa segue la storia di una bufala, al confine tra Armenia e Azerbaijan, per mettere in discussione ogni legittimità, ogni valore (politico, storico, geografico) che si suole dare ai confini tra i paesi, ai rapporti tra popoli separati da piccole strisce di terra. Il film è senza dialoghi per 82 minuti: ed è impossibile dire a parole quello che Khachatryan fa con le immagini. Tutto è vero, ma non ha nessuna importanza: le immagini che documentano le fughe di questa bufala creano una storia bellissima, struggente e l'assenza di dialoghi non pesa affatto sull'equilibrio del film. Ahimé temo che non avrà una grossa diffusione, per cui se vi capita, correte.
Drottningen och Jag (The Queen and I) è il film che Nahid Persson Sarvestani, regista iraniana che ormai da anni vive in Svezia, ha realizzato sulla regina Farah, moglie dello Shah di Persia cacciato via dalla rivoluzione che mise al potere Khomeini. La regista stessa, comunista, prese parte alla rivoluzione, e dovette scappare dopo che il regime di Khomeini si rivelò amaramente come peggiore addirittura di quello dello Shah. Il fascino che l'imperatrice esercitava sulla regista adolescente rimane intatto, nel corso di questo rapporto tra due donne, esiliate, di opposte fazioni, che a trent'anni di distanza si scoprono più vicine di quanto non pensassero nell'amore per il loro paese. Film delicatissimo, che indaga al di là del gioco delle parti nell'intimo delle persone, e mette in gioco, pur nella distanza, due grandi umanità.
Chiudo qui il miniresoconto: aggiungendo solo che all'interno della rassegna The feeling of being there che raccoglieva sette anni di cinema documentario, dal 1958 al 1965, ho avuto modo di vedere l'incantevole ...A Valparaiso di Joris Ivens, e che durante la notte di venerdì è stato proiettato in anteprima assoluta La faccia della terra, film scritto e interpretato da Vinicio Capossela, che era anche presente in sala. Il film sarebbe anche visivamente interessante, se non fosse per Capossela, portato in trionfo sotto ogni aspetto, e davvero troppo ingombrante (come dire: fai il cantautore, non il romanziere o il cineasta).
Io comunque mi sono molto divertito, e ho avuto un'ulteriore conferma che non basta una macchina fotografica a fare un fotografo.
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