È da tempo che vorrei proporre un ragionamento collettivo e generazionale sul concetto di LAVORO. Su questo blog ne discutiamo spesso, da anni. Ora, siccome ieri è uscito il manifesto di TQ e mi sento un po' questo spirito generazionale da manifesto, vorrei sottoporvi alcune riflessioni che potrebbero diventare la base del nostro manifesto, il manifesto rigattierico sul lavoro (MRSL). Che ovviamente ha pretese universalizzanti e generaliste, sennò non sarebbe un manifesto. Due cose, essenzialmente, che andrebbero forse ripensate:
1) Dice che il lavoro, se è lavoro, è pagato, altrimenti non è lavoro.
Ah beh. D'accordo siamo d'accordo tutti. Però uno si guarda attorno e vede che c'è veramente tanta gente (della nostra età, per lo più; ma la nostra età è molto ampia e si amplia sempre di più) che fa per molto tempo un'attività a tempo pieno che non viene pagata (o quasi: ma è sempre l' "o quasi" che ci fotte, n.b.): e non certamente per piacere. Non lo si vuole chiamare lavoro? Beh, allora bisognerà inventarsi un nome nuovo.
Il punto 2) è in qualche modo conseguenza di 1), gli è dunque strettamente connesso da un punto di vista logico, e tuttavia può darsi anche indipendetemente da 1) e soprattutto non è quasi mai esplicitato. Lo potremmo chiamare "Corollario della frustrazione lavorativa".
2) Il lavoro è lavoro se è sofferenza.
Con tutta la retorica annessa ("sto andando a lavorare"; "ho lavorato tutto il giorno"; e tutte le variazioni sul repertorio). In due parole, il corollario della frustrazione lavorativa implica che se uno impiega diverso tempo a fare un'attività e (mettiamo) si diverte, e magari viene pure pagato (poco o molto non importa - e molto è sempre un concetto relativo), "vabbé ma quello mica è lavoro".
Breve conclusione. C'è confusione. E la confusione linguistica è spesso sintomo di confusione concettuale. Ergo, per questa generazione (che non siamo TQ, chiamiamoci più modestamente rigattieri, o se volete VT), mi sembra prioritaria innanzitutto una riforma lessicale.