È da tempo che vorrei proporre un ragionamento collettivo e generazionale sul concetto di LAVORO. Su questo blog ne discutiamo spesso, da anni. Ora, siccome ieri è uscito il manifesto di TQ e mi sento un po' questo spirito generazionale da manifesto, vorrei sottoporvi alcune riflessioni che potrebbero diventare la base del nostro manifesto, il manifesto rigattierico sul lavoro (MRSL). Che ovviamente ha pretese universalizzanti e generaliste, sennò non sarebbe un manifesto. Due cose, essenzialmente, che andrebbero forse ripensate:
1) Dice che il lavoro, se è lavoro, è pagato, altrimenti non è lavoro.
Ah beh. D'accordo siamo d'accordo tutti. Però uno si guarda attorno e vede che c'è veramente tanta gente (della nostra età, per lo più; ma la nostra età è molto ampia e si amplia sempre di più) che fa per molto tempo un'attività a tempo pieno che non viene pagata (o quasi: ma è sempre l' "o quasi" che ci fotte, n.b.): e non certamente per piacere. Non lo si vuole chiamare lavoro? Beh, allora bisognerà inventarsi un nome nuovo.
Il punto 2) è in qualche modo conseguenza di 1), gli è dunque strettamente connesso da un punto di vista logico, e tuttavia può darsi anche indipendetemente da 1) e soprattutto non è quasi mai esplicitato. Lo potremmo chiamare "Corollario della frustrazione lavorativa".
2) Il lavoro è lavoro se è sofferenza.
Con tutta la retorica annessa ("sto andando a lavorare"; "ho lavorato tutto il giorno"; e tutte le variazioni sul repertorio). In due parole, il corollario della frustrazione lavorativa implica che se uno impiega diverso tempo a fare un'attività e (mettiamo) si diverte, e magari viene pure pagato (poco o molto non importa - e molto è sempre un concetto relativo), "vabbé ma quello mica è lavoro".
Breve conclusione. C'è confusione. E la confusione linguistica è spesso sintomo di confusione concettuale. Ergo, per questa generazione (che non siamo TQ, chiamiamoci più modestamente rigattieri, o se volete VT), mi sembra prioritaria innanzitutto una riforma lessicale.
Comments
13 Responses to “appunti per un manifesto rigattierico sul lavoro”
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Ricorda in parte il manifesto lavorativo dello Smeriglia: http://incomaemeglio.blogspot.com/2011/01/il-lavoro-e-il-padre-dei-vizi.html
28/07/11, 18:23Questo è un grande complimento, e fa certamente parte dei miei plagi involontari (devo averlo letto tempo fa ed esserne stato indirettamente e a distanza di mesi influenzato...). Con la piccola differenza che il grande Smeriglia è veramente un fuoriclasse!
28/07/11, 21:30eheheh
29/07/11, 03:38il manifesto tq sull'editoria pone questioni interessanti però!
beh beh ma insomma pure qui mi sembra che ci siano questioni cruciali, e soprattutto trattate con il giusto grado di approfondimento, o no?
29/07/11, 08:54E' da 3 ore che divido le alghe rosse da quelle brune da quelle verdi. Poi dò loro un nome, e le peso prima e dopo averle messe nella stufa a seccare.
30/07/11, 13:23Non sto soffrendo, però sto lavorando, anche se oggi è sabato e non sono pagata. baci
A leggere il manifesto rigattierico mi sono venute in mente altre cose.
31/07/11, 09:06Per esempio, ai punti fondamentali bisognerebbe aggiungere questo: il contratto a tempo indeterminato è una diceria oramai leggendaria; si sa che esiste ma nessuno l'ha più visto.
e poi quest'altro ancora: salvo rarissimi casi (fortunati o follemente pervicaci) nessuno della nostra generazione finirà per fare il lavoro "pensato" negli anni della formazione, ma andrà a fare, probabilmente, tutt'altro.
@TQ: su cui mi ero espresso polemicamente altrove, su questo blog. Bene. Mi sono sciroppato il manifesto. E mi viene da dire una cosa: per scrivere un manifesto di scrittori serve una cosa fondamentale: saper scrivere. Almeno in italiano.
"Però uno si guarda attorno e vede che c'è veramente tanta gente (della nostra età, per lo più; ma la nostra età è molto ampia e si amplia sempre di più) che fa per molto tempo un'attività a tempo pieno che non viene pagata...."
02/08/11, 17:48...gente sbagliata...soprattutto quelli che persistono...credo che persistano solo per far valere fino in fondo il punto numero 1...o almeno spero.
Magari è gente sbagliata (o più probabilmente gente che sbaglia), ma spesso è gente che fa le cose perché altrimenti, semplicemente, non si farebbero. Magari uno può dire che è meglio non farle che farle così, ma questa è questione di opinioni. E le opinioni, diceva qualcuno, sono come le palle: ognuno ha le sue.
03/08/11, 01:40nobile gesto fare le cose senza un compenso, e pieno di fascino. ma dipende naturalmente dalle cose che si fanno. lavorare senza compenso è fare qualcosa di buono? ecco, io direi di no. poi per carità, ci sono cose che meritano di essere fatte, ma ci sono cose che vengono fatte e che, al di là delle opinioni, meritano di essere pagate. che si facciano cose che meritano di essere pagate senza essere pagati è, e qui la sparo grossa (ma il blog serve anche a questo, no?), niente più che una forma di eroismo aristocratico, raffinato solo nelle intenzioni e che, dal punto di vista materiale, pochi si posso permettere.
03/08/11, 17:29diciamo che ci sono cose che meritano di esser fatte e che, se ben fatte, meritano di esser pagate perché possano esser fatte ancora. perché pagare non dovrebbe equivalere a una mancia ma a un investimento.
12/08/11, 13:11dalle due tesi di Viarigattieri parte la controcontroriforma linguistica dell'editoria itagliana.
26/08/11, 20:25e io sottoscrivo pure.
ps. comunque la confusione continua a farla chi non vuole essere chiaro (e non sono solo i padroni a giocare con le sfumature): esistono un'etica e un'ideologia del lavoro... ma anche una più meschina dottrina contrattuale. Patti chiari anche col diavolo.
Se dobbiamo avviare una (contro)riforma lessicale, propongo che il lavoro diventi "travaglio" come in siciliano, francese, castigliano ecc. così magari ne nasce qualcosa.
04/09/11, 22:47Bell'articolo. Interessante.
05/01/12, 11:08Posta un commento